Maldicenza

Anna SegreA volte durante Kippur, con una mancanza di serietà – ammetto – non adatta al contesto (ma il digiuno è lungo e le ore da trascorrere sono molte), giochiamo a scorrere la lista dei peccati che si legge nel Viddui (confessione) dichiarando per ciascuno “Celo!” / “Manca!”, come facevamo da piccoli con le figurine. È un gioco poco serio perché la logica della confessione collettiva consiste appunto nell’assumersi la responsabilità per tutti i peccati, anche se non li abbiamo commessi personalmente, in quanto siamo parte di una collettività che li ha commessi e probabilmente non abbiamo fatto del nostro meglio per impedirli. Per esempio, anche se personalmente non abbiamo derubato nessuno, siamo parte di un sistema sociale in cui le ingiustizie non mancano, siamo cittadini di un’Europa ricca che si permette un certo tenore di vita probabilmente grazie al fatto che la maggior parte della popolazione mondiale non se lo può permettere. Quindi, in effetti, i “manca!” non sarebbero del tutto giustificati.
Il peccato che ottiene sempre il coro più convinto di “Celo!” è la maldicenza. E non c’è da stupirsi dato che spesso viene esercitata in tempo reale proprio durante Kippur, che, grazie all’incontro di molte persone che magari si vedono solo una o due volte all’anno, si rivela un’occasione straordinaria per scambiare pettegolezzi. Ma come mai un peccato che viene considerato da tutte le fonti così odioso, che tutti riconosciamo di aver commesso e di cui tutti siamo pentiti (giochi a parte, che siamo credenti o non credenti, osservanti o non osservanti, sono convinta che sia quello che più di tutti risveglia i nostri sensi di colpa) è al contempo quello in cui tendiamo a cadere con più facilità? Perché nelle nostre Comunità tutti gridano contro la maldicenza e tutti la esercitano in continuazione?
Il problema, credo, sta nel fatto che in molti casi la consideriamo non solo un diritto, ma addirittura un dovere. Ci sentiamo in dovere di parlare per il bene della nostra Comunità, dell’UCEI, dell’Italia, di Israele, del mondo intero. Ci sentiamo in dovere di non tacere quando riteniamo che vengano commesse ingiustizie, ci sentiamo in dovere di ammonire il nostro prossimo quando riteniamo che stia sbagliando, e, di conseguenza, ci sentiamo in dovere di mettere in guardia il nostro prossimo contro le persone che secondo noi sbagliano. Il problema è che in parte l’Halakhah ci dà ragione, e la stessa confessione collettiva, per cui ci assumiamo la responsabilità per tutta la società, pare confermarlo. E così ci troviamo in conflitto tra due doveri che vengono dichiarati entrambi molto importanti: il dovere di non parlare e il dovere di non tacere. Parliamo e ci sentiamo in colpa per aver parlato, stiamo zitti e ci sentiamo in colpa per aver taciuto.
Come se ne esce? Naturalmente può essere utile fissare qualche paletto (non dire cose false, controllare la veridicità delle informazioni che ci vengono propinate, non dare per scontata la malafede del prossimo, non umiliare le persone, ecc.). Credo comunque che non verrà mai un Kippur in cui non ci pentiremo per aver commesso maldicenza.

Anna Segre, insegnante

(14 settembre 2018)