Lo spazio del nostro tempo

torino vercelliCosa succede? Quali sono le reali intenzioni dei soggetti politici che si muovono sulla scena, continentale e internazionale? Che cosa potrebbe avvenire, di qui in avanti? Nessuno ha la sfera di cristallo, grazie alla quale predire con sicurezza il futuro. Tuttavia, le linee di tendenza sembrano delinearsi grazie a contorni ora più netti. Ed allora, ancora una volta un decalogo degli incerti e degli scettici, può forse tornare utile, non per sentenziare ma per cercare di orientarsi nelle perplessità del momento. Quello che possiamo dirci, pur con cautela, è che:

1) gli equilibri e gli assetti geopolitici che si erano andati istituendo dal secondo dopoguerra in poi si sono definitivamente consumati. Non è bastato il 1989 per sancire questo trapasso; occorreva che una nuova configurazione di soggetti internazionali, potenzialmente globali, apparisse sulla scena: la Cina soddisfa questa esigenza, non a caso candidandosi ad un ruolo egemonico sempre più spesso conteso agli Stati Uniti;

2) non è per nulla vero che il mondo nel suo insieme stia ancora vivendo una condizione di perdurante «crisi economica», come invece molti si ostinano a pensare: non vale per gli Stati Uniti che, dopo la depressione del 2008, hanno ripreso vigore e potenza, avendo avviato con l’attuale presidenza un conflitto commerciale (e politico, poiché le due cose si tengono insieme) nei confronti dei nuovi Global Players; non vale di certo per la Cina, che dalla fine degli anni Settanta in poi ha avviato un piano colossale di trasformazione economica e sociale, che sta producendo frutti ancora pochi decenni fa impensabili, con la formazione di un ceto medio per più aspetti simile a quello dei nostri paesi; non vale neanche per una parte dei paesi «poveri», dove invece le diseguaglianze interne si sono in parte stemperate (gli indicatori internazionali sulla distribuzione delle risorse indicano nel pianeta di oggi una realtà meno polarizzata del passato);

3) il pedaggio che l’Europa e i paesi a sviluppo avanzato hanno pagato per questo travaso di risorse (e potenza) è invece netto, registrando un evidente indebolimento dei loro ceti medi, sia sul piano economico che sul versante del loro ruolo politico. Un fenomeno tanto più pronunciato laddove già le condizioni di partenza erano di maggiore svantaggio (l’Italia sta purtroppo in questo novero). Il fuoco della «crisi» che le democrazie liberali stanno vivendo è esattamente questo, insieme al transito demografico che i processi di immigrazione inevitabilmente producono, non solo su un piano sociale ma anche culturale. Mentre gli europei si scoprono mediamente “anziani” (non solo anagraficamente), disarmati dinanzi al mutamento e affaticati, coorti generazionali giovanili, provenienti da società in trasformazione, si spostano alla ricerca di nuove risorse e di opportunità: le frizioni sono pressoché inevitabili anche se, in linea di principio, non ingestibili;

4) in questo mutamento – storicamente per nulla sorprendente, poiché è storia ciò che registra il cambiamento incessante degli ordinamenti umani – le istituzioni sovranazionali non federali (cioè prive di un centro politico unitario e unificato, come invece lo sono gli Stati Uniti) non stanno reggendo alla prova dei fatti. Sono pressoché tutte in difficoltà, se non in una condizione di crisi probabilmente definitiva: dalle Nazioni Unite, già pensate a guerra ancora in corso, come camera di ammortizzazione e compensazione per i conflitti a venire, alle alleanze militari nate in età bipolare, come la Nato. Ma sono solo due degli esempi possibili. Il caso dell’Unione europea, per parte sua, costituisce un fondamentale banco di prova al riguardo. Senza una sua radicale riforma, che in tutta probabilità non ci sarà comunque, il suo destino pare essere segnato: un progressivo inabissamento, che potrà durare anche molti anni, ma che ne decreterà la definitiva consunzione per sopravvenuta incongruità;

5) La condizione di affaticamento radicale che questi organismi internazioni stanno vivendo deriva da molti fattori. Primo tra essi è la veloce deperibilità di istituzioni collettive pensate in una trascorsa epoca, quando invece quest’ultima adesso si conclude. Tuttavia, ciò che va registrato, al netto della peculiarità di ogni crisi, è il fatto comune che queste istituzioni non riascono a soddisfare le domande sociali – a partire da quella di sicurezza e benessere, insieme a quella di libertà – che arrivano dalle collettività nazionali. Lo stesso problema lo hanno i politici dei singoli Stati nazionali, che cercano soluzioni all’inesorabile crisi di rappresentanza che gliene deriva sforzandosi di proiettare i conflitti sul piano delle relazioni internazionali (come nella vertenza “mediterranea” sulla gestione dei flussi migratori);

6) Il conflitto tra i cosiddetti «sovranisti» (fino ad un anno fa sarebbero stati qualificati come «populisti»; prima ancora come «nazionalisti») ed «europeisti» (ossia, coloro che vorrebbero “rilanciare” l’attuale Unione europea, però sulla scorta di una non meglio identificata piattaforma programmatica) si inscrive dentro queste dinamiche di fondo. I primi ritengono che si sia concluso un lungo capitolo, quello della costruzione delle Comunità europee, risultando del tutto insoddisfacente, se non fallimentare, quello attuale dell’Unione. A tale declino, che ritengono ineluttabile poiché di natura non solo politica ma anche sociale e culturale, contrappongono formule al momento ancora incerte o confuse, dove tuttavia lo Stato nazionale ritorna ad essere il soggetto principale della decisione politica. Segnatamente, un tale modo di intendere le cose non appartiene solo alla “destra” ma è visto con attenzione anche da un una parte di ciò che resta di quanto è definito come “sinistra”. La percezione condivisa, infatti, è che l’incerto e residuale “federalismo” sia solo un surrettizio veicolo di globalizzazione selvaggia, senza nessun ammortizzatore sociale rispetto alle sue numerose ricadute sulle collettività;

7) al tramonto dell’Unione europea non è però per nulla detto che derivi un’alleanza dei sovranisti, tra di loro divisi proprio per la stessa ragione per cui esistono, ovvero la tutela degli interessi del proprio paese (spesso in contrasto con quelli altrui). Assai più plausibile, semmai, è che si formino degli accordi di scopo, dei consorzi temporanei, che comunque avranno l’effetto di proiettare una parte degli attuali Stati membri dell’Unione europea verso partnership, in funzione sostanzialmente subalterna, con protagonisti della scena internazionale che ambiscono a ruoli di egemonia. A tale riguardo, già la Cina è stata ripetutamente indicata, ma senz’altro il discorso vale anche per la Russia (che da sempre coltiva una sua propria visione imperiale), come per gli stessi Stati Uniti, tuttavia ridimensionati rispetto alla fisionomia che ancora oggi preservano: l’amministrazione Trump si muove già in quest’ottica;

8) se così dovesse essere, si registrerà un altro declino, quello della democrazia rappresentativa e costituzionale, di matrice liberale e socialdemocratica, cresciuta ed affermatasi in età industriale, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Sul piano politico, quello che stiamo verificando è propriamente questo fenomeno, soprattutto laddove si riscontra che le politiche di “benessere sociale” e di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, possono benissimo essere soddisfatte da regimi politici illiberali. Il caso cinese è emblematico, a tale riguardo. Ben più in piccolo, la vicenda ungherese ne è a sua volta testiominanza. L’analogia con gli anni Trenta del secolo trascorso si ferma a questo riscontro: la libertà è per molti contemporanei meno importante di una qualche speranza di “protezione”;

9) per Israele i problemi a venire potrebbero essere anche molti (a partire da quelli di sempre, legati alla sicurezza in una regione che è insicura per antonomasia) ma la sua natura di paese snodo della globalizzazione gli permette di ragionare con un discreto margine di ottimismo per il suo futuro. A patto che non abbassi il livello di guardia, impegno in sé molto oneroso ma anche premiante quando si traduce nella capacità di fare della necessità una (o più) virtù. Una delle poche “certezze” che il Novecento offre, d’altro canto, è la persistenza dello Stato degli ebrei, nato proprio in quella temperie politica, culturale, sociale ma mantenutosi, attraverso i suoi tanti cambiamenti, fino ad oggi;

10) oltre che con le minacce esterne Israele dovrà misurarsi con il mutamento interno, ossia con la trasformazione delle composizione sociale della sua popolazione di qui alla fine di questo secolo. Il fattore sociodemografico, complesso e composito, è strategico, indicando in prospettiva quali potrebbero essere gli scenari a venire. Diversi da quelli attuali, se i trend dovessero mantenersi nell’indirizzo che hanno da tempo assunto: una crescita numerica della minoranza ultraortodossa; il peso crescente della componente araba, e di quella dei territori contesi; le condotte degli hilonim, la componente secolarizzata, pienamente propensi ad assestarsi (sul piano della natalità, delle abitudini quotidiane, della nuzialità, delle relazioni interpersonali) agli indirizzi del mondo postindustriale, del quale peraltro Israele è parte integrante.

Claudio Vercelli