“Siamo tutti comunità, tutti ‘am Israel condividiamo la gioia dell’appartenenza”
Ci stiamo avvicinando al momento più sacro e intenso del nuovo anno, quello in cui le porte del cielo si chiudono, dopo ore di preghiere. E’ il momento in cui, secondo l’insegnamento dei nostri Maestri, la sentenza per ognuno di noi viene firmata. Questo è uno dei momenti dell’anno in cui le Sinagoghe sono più affollate. L’altro momento è stato dieci giorni fa, il primo giorno di Rosh haShanà nella tarda mattinata, per ascoltare lo shofàr e per ricevere e condividere la benedizione del kohèn. Rosh haShanà, come tutti sanno dura due giorni, e le regole del secondo giorno sono le stesse del primo; ma succede sempre che il secondo giorno sia molto meno affollato del primo. Con una stima approssimativa, e molto variabile, il secondo giorno viene un quinto dei presenti il giorno prima. Abbiamo quindi una comunità a diverse velocità e intensità. Rispetto ai presenti, c’è quella dell’80% che si affaccia e poi scompare e poi riappare questa sera, c’è quella del 20% che c’è quasi sempre, ma poi c’è quell’altra, chissà quanto grande, ma certo non piccola, che è assente anche in questi momenti. Ma siamo tutti comunità, siamo tutti ‘am Israèl. Tutti legati con un filo storico verticale alle origini di una chiamata sacra, tutti legati tra di noi al presente con un filo orizzontale, che per qualcuno è ben visibile, per altri è trasparente, o negato, o tagliato. Tutti con una responsabilità reciproca alla ricezione, al mantenimento e soprattutto alla trasmissione di un insegnamento e di una missione. Se qua dentro ci veniamo per un’ora o due all’anno o tutti giorni o per niente, siamo comunque collegati e corresponsabili; non mi piace usare la parola orgoglio, che ora va tanto di moda e non sarebbe neppure permessa, e preferisco la parola gioia; condividiamo la gioia di questa appartenenza comune fatta di tante differenze.
Questo anno, che in data civile finisce ancora per pochi mesi con un 8, mentre per noi è già il 9, è un anno di anniversari in cifra tonda che stiamo ricordando, perché la storia è parte della nostra identità. Tra poco saranno cento anni della vittoria alleata della prima guerra mondiale. I nomi dei non pochi caduti ebrei sono incisi nella lapide qua fuori e negli altri tempi italiani; sulla nostra tevà troneggia ancora il leggìo di argento che venne dedicato in occasione della vittoria, della pace conquistata e della libertà dei popoli; così scrivevano allora, ma la pace fu precaria, la libertà dei popoli un sogno e il prezzo pagato, in una lotta fratricida, fu enorme e non riconosciuto. E in questi giorni si moltiplicano le iniziative per ricordare gli 80 anni delle leggi razziali. E già ci siamo dimenticati, in questa moltiplicazione di eventi, il più importante anniversario, quello dei 70 anni dello Stato d’Israele. Anche se è fondamentale mantenere la memoria delle persecuzioni e trarne un monito per tutta la società, rischiamo di rimanere invischiati nella seduzione del negativo, nel tormentoso ricordo della sofferenza subita. Dovremmo piuttosto usare queste memorie per capire dove abbiamo sbagliato e dove potremmo ancora sbagliare come ebrei. Nell’avere dimenticato chi dobbiamo essere e non essere preparati a quello che potrebbe avvenire. Nella prospettiva della continuità generazionale non ci salverà il lamento, ma una coscienza forte, una cultura forte, un comportamento coerente.
Quando uscirono dai ghetti, molti dei nostri antenati fecero di tutto per dichiararsi ebrei dentro casa e cittadini fuori casa. C’era un desiderio di integrazione, ma anche una vergogna per la propria condizione. Oggi molti sbandierano il proprio ebraismo fuori casa e chissà cosa è il loro ebraismo dentro casa. E quello fuori casa rischia di essere solo una medaglietta chic. Almeno fino a quando non sarà pericoloso esibirla. Sono anni che viviamo in situazioni politiche fluide, ogni volta con un problema più evidente, come la situazione economica, il terrorismo, oggi l’immigrazione. Ognuno di noi ha diritto di schierarsi e scegliere come meglio crede, possibilmente guidato dall’esperienza e dai valori ebraici. Ma a livello collettivo l’ebraismo non può essere utilizzato strumentalmente, a sostegno di un partito o di una coalizione o di una ideologia, come spesso avvenuto in modo disastroso in passato; deve piuttosto essere evocato con saggezza e fermezza solo per la difesa dei valori fondamentali. La saggezza è quella che si esercita anche sapendo ben distinguere tra le polemiche di potere, che non ci riguardano, e i valori essenziali. La fermezza è una modalità che si accompagna alla autorevolezza che discende dalla tradizione e dalla storia ma che non può fare al meno della coerenza. Già, la coerenza. Difficile mantenerla, ma è il prezzo da pagare nell’affermazione dei valori e nell’educazione. Un modello incoerente di maestro o di genitore, che è il primo maestro, porta a far disprezzare quello che si vorrebbe goffamente trasmettere. Ebrei bisogna esserlo in casa e fuori casa, senza compromessi o camuffamenti. Non saremo rispettati per quello che abbiamo buttato via o nascosto o per quello che ostentiamo ma non rispettiamo.
Tra poco ascolteremo la voce antichissima del sacro che ci parla direttamente, senza mediazioni di spiegazioni o interpretazioni: la berakhà del kohèn e il suono dello shofàr. Queste voci dovrebbero far vibrare le corde di ogni persona e la vibrazione non dovrebbe passare senza promuovere un desiderio di miglioramento. Vi sono veramente tante cose che ognuno di noi può scegliere e impegnarsi a fare: educarsi nella gratitudine, nel rispetto reciproco, nel controllo delle parole e degli scritti, oggi soprattutto nei social, nel volontariato, nell’impegno allo studio, nella trasmissione di valori spirituali a chi ci circonda e soprattutto ai figli, nella riscoperta della grandezza delle nostre tradizioni a cominciare dallo Shabbàt.
Ogni parola della tefillà contiene un messaggio importante e pieno di significati. Tra poco leggeremo questa frase:
חמול על מעשיך ותשמח במעשיך
Abbi pietà delle Tue opere, e gioisci delle Tue opere
Affrontiamo il giudizio di queste ore confidando nella misericordia, ma anche con la responsabilità di chi può far gioire il Creatore per come ci ha creato e come ci comportiamo.
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות
Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo di Roma