“1938, la piazza applaudì l’infamia
Oggi sia modello d’inclusione”

Sono grata al Sindaco e al Consiglio Comunale di Trieste per aver voluto organizzare e ospitare questa solenne cerimonia che porta come titolo l’imperativo “Zachor” – Ricorda!
Oggi, in questa sede, dinanzi a noi – rappresentanti delle comunità ebraiche italiane – sono state pronunciate riflessioni e parole di cui abbiamo con attenzione ascoltata e ponderata ogni sillaba.
Portiamo anche noi oggi il peso di una riflessione da condividere ad ottant’anni dalla data in cui, su questa Piazza – Piazza Unità – fu pronunciato il discorso di Benito Mussolini, Capo del Governo italiano, con il quale annunciava il varo dei provvedimenti ed la sua visione complessiva della questione raziale-ebraica.
È per me e noi tutti difficile se non impossibile rappresentare, anche idealmente, chi ha subito l’umiliante applicazione dei provvedimenti sulla tutela della razza con i quali si formalizzava l’esclusione da ogni settore della vita civile. I nostri padri, madri, nonni e nonne. Persone che con il loro studio e lavoro concorrevano allo sviluppo dell’Italia, credendo che fosse la loro patria. Credendo di avere come concittadini persone capaci di discernere e di ragionare con la propria mente e con la propria coscienza civile e forse anche religiosa. Così non fu. Vite spezzate, speranze abbandonate, dignità di cittadinanza sottratta, attestati di appartenenza ad una comunità scientifica negati, orgoglio di essere italiani svanito.
Il ’38 rappresenta uno spartiacque legale tra l’essere e non essere più cittadini italiani di pari diritto. Il tradimento dello Stato rappresentato dalle leggi approvate nei confronti di una popolazione che ha sempre vissuto sentendosi parte del contesto sociale e culturale di riferimento.
Non posso tacere il pensiero che da oltre otto decenni ci accompagna. Quanto pronunciato da Mussolini con fermezza e convinzione nel breve discorso del 18 settembre erano parole sconnesse e frasi che in alcun modo potevano conglomerarsi e divenire ragionamento significante. Affermazioni, ragionamenti e visioni sull’agire della cittadinanza ebraica che sia linguisticamente che concettualmente esprimevano illogicità e pochezza ma contemporaneamente gravità assoluta. Perché ad esprimerle era il vertice istituzionale che profondamente (a quanto pare) ci credeva e poneva la questione razziale a fondamento di tutte le altre. La ragion di Stato ne doveva quindi tener conto. E poi perché ad ascoltarle non vi fu una piazza vuota nella quale echeggiava il silenzio ma una piazza gremita e straripante che inneggiava al Duce per ogni frase e concetto espresso. Che inneggiava e condivideva la minaccia e il nemico palesato. La ripresa più importante che ci restituisce l’istituto Luce è quella che mette a fuoco la piazza, quella la vera scena, la vera follia, quella collettiva, quella che trasforma illogicità in pregiudizio, l’ingiustizia in gesto di assoluta doverosità, la menzogna in verità, rinunciando ad ogni vaglio di umana ragionevolezza. Non vi era indifferenza. Vi era piena partecipazione.
È la parola “legge” con il suo perché sociale, la sua forza vincolante e la sua funzione essenziale di tutela e di regolazione dello spazio relazionale, al centro della nostra riflessione perché il giorno 18 ne venivano esplicati i “considerati”, piegandoli al servizio di una logica totalmente diversa da quella propria.
Perché solo pochissimi dissero no, questo concetto non ha senso? Questa legge non ha fondamento? Perché inneggiavano alla negazione di quanto affermato pacificamente e vissuto per oltre 90 anni dalla concessione dello Statuto Albertino?
Non porto oggi alcuna risposta a queste tormentose domande, che per risposta richiedono di risalire millenni addietro e comprendere la radice dell’odio antiebraico.
In questa sede, in questa Piazza e in questa particolare giornata, dobbiamo con fermezza denunciare le parole di odio, le violenze verbali e fisiche rivolte contro individui o collettività che ogni giorno di più sentiamo pronunciate e difese anche nello spazio pubblico. Cerimonie e raggruppamenti nostalgici di matrice neo fascista con assenza, avallo o sottovalutazione dell’impatto che queste hanno su chi è fragile o impreparato, da parte della classe politica. Segnali inquietanti e preoccupanti che generano incertezza e che temiamo dover inevitabilmente accostare a quella esclusione, allora elusa e sottovalutata.
Questo oggi accade e nessuno può restare inerte. È l’Italia con le sue istituzioni – a partire da quelle preposte all’educazione dei giovani e allo sviluppo culturale, assieme a chi è chiamato ad assicurare giustizia, ordine, legalità e costituzionalità dell’agire collettivo e individuale, e assieme ai governi locali – a dover difendere quanto faticosamente ricostruito e definito come quadro normativo in Italia e in Europa nel dopoguerra, rafforzando, e non svilendo, i principi di solidarietà e di uguaglianza tra le genti. I media e i social sono strumenti che ben conosciamo: generatori di immensi danni e devastazioni, aggregatori del male ma anche, se davvero ben usati, focolai di gioie e benefici. La potenza di tali collanti è da tenere ben presente.
Chiediamoci, forse anche con coraggio, se fosse mai oggi possibile ascoltare un simile insieme (inconsistente) di frasi, cosi carico di precisa selettività? Qui o altrove sarebbe mai possibile riempire una piazza per inneggiare a frasi di odio? A cosa ci troviamo ad inneggiare oggi nelle nostre piazze virtuali?
Ce lo chiediamo non per fare della Storia un esercizio fantasioso; ma perché vorremmo che la lezione insegnata da questa buia pagina del ‘900 fosse custodita, preservata, trasmessa. In particolare ai giovani, che ne sono i principali attori e destinatari.
Ai giovani in particolare va trasmesso un messaggio chiaro e preciso di quanto avvenuto – verità che entra nel cuore senza tentennamenti, prudenza e timidezza, ma con la fermezza. Con le storie e le narrazioni che entrano nel cuore, poi anche nella mente. Chi oggi è chiamato ad essere di esempio ai giovani – genitori, educatori, istituzioni – devono chiedersi se riescono a fare comprendere loro il significato folle e pericoloso di quella piazza gremita e urlante, il significato del silenzio che coprì la città dopo l’8 settembre del ’43, il significato delle urla e dei silenzi che assorbiva la Risiera.
La speranza è che da questa piazza, nuovamente affollata, possa riverberare un messaggio esattamente opposto a quello di 80 anni fa – un messaggio pronunciato dai massimi esponenti delle istituzioni – per la tutela dei diritti e non quello per la tutela della razza, che riscuota applausi e adesioni perché corrisponde alla ragionevolezza e desiderio di convivenza sociale. Speranza che l’Italia comprenda quanto avvenuto e quanto ne usci profondamente ferita nella consapevolezza oggi che la cultura ebraica – viva e presente – continuerà a donare di sé come fatto per lunghi secoli.
Tra pochi giorni festeggeremo una festa molto importante – Sukkot – la festa che ricorda la precarietà del nostro vissuto attraversando il deserto ma anche la stabilità e la protezione che presenta uno spazio ben definito di riferimento che va costruito e condiviso. Questo in fondo è il significato profondo della nostra esistenza e del nostro impegno, come popolo di Israele e come italiani.

Noemi Di Segni, Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

“Zachor, abbiamo la responsabilità di perpetuare la Memoria”

Oggi, seppur a distanza di alcuni giorni rispetto al 18 settembre per consentirci di celebrare la solenne ricorrenza dello Yom Kippur, ci troviamo in questa sala a commemorare un evento tristissimo per il popolo ebraico. Siamo all’ottantesimo anniversario da quel 18 settembre 1938, una data che segnò in modo indelebile la storia del nostro paese e il destino della popolazione ebraica italiana.
Quel giorno la città di Trieste, la nostra piazza principale, furono teatro di un annuncio che contrassegnò l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei e la deriva razzista del fascismo. L’annuncio delle leggi Razziali venne dato di fronte a più di centomila persone plaudenti ed entusiaste.
L’obiettivo era chiaro: dovevamo essere distrutti, cancellati dalla faccia della terra.
Non è difficile immaginare lo shock e l’indescrivibile umiliazione subita dagli ebrei triestini, presenti in buona parte in piazza dell’Unità ad udire anch’essi le parole del Duce.
Da un momento all’altro gli ebrei italiani diventavano persone sgradite, cittadini di serie Z, da emarginare dalla società.
Privati dei propri beni, cacciati dai luoghi di lavoro e dalle scuole, tanti di essi furono costretti a fuggire; altri invece a nascondersi nella speranza, spesso mal riposta, di evitare la delazione.
Una parte importante della popolazione italiana si trovò improvvisamente sprofondata nell’abisso.
Le tragedie che fecero seguito a quel terribile annuncio e alla legge firmata dal Re, corresponsabile impunito di quello sciagurato provvedimento, furono immense e la storia ne è testimone.
Dall’entrata in vigore delle Leggi Razziste del ’38 vi fu un susseguirsi di vessazioni, di violenze e soprusi, di persecuzioni ai danni degli ebrei che culminarono con retate e la deportazione di migliaia di famiglie verso i lager nazisti del centro Europa o, come nel caso di Trieste, alla Risiera di S. Sabba, unico campo di sterminio in territorio italiano.
Durante la Shoah, lo sappiamo, milioni di donne, uomini, bambini, non solo ebrei, vennero torturati, uccisi, massacrati in nome di una supposta supremazia della razza ariana. Tutto ciò rappresenta un’onta che rimarrà indelebile nella storia del genere umano.
Nessuno potrà ne dovrà mai dimenticare quello che è successo ed è nostro preciso compito garantire che la memoria venga rispettata e perpetuata.
Il fascismo e il nazismo, ideologie che fanno dell’odio verso il prossimo e della supremazia della razza, i loro vessilli, incarnano un male assoluto, il Male Assoluto per il genere umano. Non smetteremo mai di ripeterlo senza indugio e tentennamenti.
Il nostro compito, cari rappresentanti delle istituzioni civili e religiose, è di far sì che la memoria non costituisca semplicemente un astratto esercizio di partecipazione ad eventi formali o di discorsi conditi di retorica e di tanti buoni propositi, ma nulla più.
Ci aspettiamo il realizzarsi di atti concreti, di azioni che diano un segnale forte e chiaro per affermare che in Europa, in Italia, nelle nostre città, non c’è posto per l’intolleranza, per la xenofobia, per l’antisemitismo.
In quanto rappresentanti di istituzioni ebraiche da anni ci stiamo muovendo in ogni direzione per diffondere la conoscenza dei fatti.
Cari signori amministratori della cosa pubblica, avete sulle vostre spalle una grande responsabilità: quella di offrire alle nuove generazioni una società pulita, democratica e rispettosa delle diversità. Trieste storicamente è stata un esempio di tolleranza e di convivenza pacifica di popoli con origini, lingue e tradizioni diverse.
Da triestino desidererei tanto che la nostra città non abbia ad essere ricordata come il luogo in cui quel funesto discorso venne pronunciato. Vorrei piuttosto che funga da esempio di armoniosa coesistenza anche per le altre città, affinchè le diversità vengano riconosciute come un valore aggiunto ed una ricchezza intellettuale.
Sono fermamente convinto che questo possa avvenire, e la storia recente ne ha dato numerose dimostrazioni.
Ci piacerebbe pensare che sulla base di questi presupposti i nostri figli e nipoti possano crescere in tranquillità e sicurezza.
Il messaggio da rivolgere ai nostri giovani deve partire in particolare dalla scuola. Essa ha un dovere formativo fondamentale: quello di offrire ai nostri ragazzi, senza ricadere nella faziosità, gli strumenti per crearsi una loro coscienza sociale, la capacità di saper valutare, anche criticamente, il mondo che li circonda aprendo le loro menti e rendendoli consapevoli dell’importanza del loro contributo per lo sviluppo di una società sana.
L’iniziativa degli studenti ed insegnanti del Petrarca di realizzare la mostra “Razzismo in cattedra” va nella giusta direzione.
La Comunità appoggia incondizionatamente questo progetto e si augura che le polemiche delle ultime settimane possano presto rientrare e l’esposizione possa finalmente vedere la luce. A tal fine, come Comunità, ci mettiamo a disposizione per dare un fattivo contributo affinché questa sfortunata vicenda arrivi presto ad una soluzione positiva e venga messa la parola fine alle polemiche che hanno indiscriminatamente travolto un po’ tutti.
Lo dobbiamo a questi studenti, lo dobbiamo alla città, lo dobbiamo alla storia.
I tempi che stiamo vivendo purtroppo non ci inducono ad essere particolarmente ottimisti. Non possiamo ignorare che in Europa si respira un clima che ci preoccupa alquanto.
Come Comunità ebraiche ci sentiamo in dovere di tenere alta la guardia e di intervenire, denunciando sul nascere, qualunque atteggiamento xenofobo e antisemita. È un compito da cui non dobbiamo astrarci.
Cari signori, con la cerimonia odierna, per la quale abbiamo voluto unire le forze, assieme a Comune di Trieste e Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, vogliamo commemorare la memoria di un evento che sconvolse indelebilmente il destino di tanti ebrei italiani lasciando alla città una testimonianza ben visibile in ricordo di quella tragedia.
Il testo riportato sulla targa che vediamo qui nascosta da un drappo, inizia con il termine “ZACHOR” che in ebraico significa “Ricorda”. Perpetuare la memoria di ciò che avvenne è una responsabilità ed un valore che tutti noi dobbiamo salvaguardare.
La targa verrà collocata, speriamo in tempi rapidi, in un luogo ben visibile presso il porticato del Municipio.
Ci auguriamo che i passanti che la incroceranno sul loro cammino siano indotti, almeno per quell’attimo, a leggerla e a riflettere su ciò che accadde in quel lontano 18 settembre 1938.
Se sarà così, crediamo che un piccolo ma significativo passo nella giusta direzione sia stato compiuto.

Alessandro Salonichio, presidente della Comunità ebraica di Trieste

“Denunciamo ogni rigurgito fascista e razzista”
Auspico il miglior successo alla vostra cerimonia di ricordo degli 80 anni delle leggi razziste imposte dal fascismo. Sono grata a tutti coloro che tengono viva la memoria di ciò che è stato, di ciò che io ho visto e vissuto in prima persona, da bambina ebrea espulsa dalla scuola a 8 anni e da adolescente deportata nell’inferno di Auschwitz.
Ricordare è importante e necessario sempre e comunque. Ma assume forse un significato particolare nella vostra città e nella vostra regione. La città in cui Mussolini volle annunciare e vantare l’avvenuta promulgazione delle leggi razziste, la città della Risiera di San Sabba, una terra che durante l’occupazione nazista fu staccata dall’Italia e consegnata alla giurisdizione diretta del Reich hitleriano.
Solo ricordando, denunciando, contrastando ogni rigurgito neofascista e razzista, ma anche lavorando nelle scuole, nella società, fra i giovani, favorendone la crescita e l’autonomo protagonismo nello studio e nell’approfondimento, solo così costruiremo un tessuto civile e democratico in grado di impedire che l’orrore possa mai ritornare in futuro.

Liliana Segre, senatrice a vita