Una giornata da cui imparare
Con il programma ‘San Rossore 1938’, organizzato dalla città di Pisa e dalla regione Toscana, si sono voluti ricordare gli 80 anni trascorsi dalla firma del decreto, avvenuta il 5 settembre dal re Vittorio Emanuele III presso la tenuta di San Rossore, con il quale sono state promulgate le leggi razziste. Con tale decreto, espressione della volontà del regime fascista, l’accesso alle scuole e alle università pubbliche e private, alle accademie e agli istituti veniva interdetto a studenti e docenti di fede ebraica. Il terreno ideologico era stato preparato dal ‘Manifesto della razza’, un decalogo pubblicato il 15 luglio dello stesso anno, ad opera di dieci accademici italiani, infarcito di affermazioni assurde e prive di qualsiasi validità scientifica. Ciò nonostante, furono in molti gli scienziati, intellettuali e politici a sottoscrivere le tesi razziste contenute nel Manifesto.
Finalmente, dopo 80 anni di indifferenza assordante, il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, ha riconosciuto pubblicamente, a nome di tutta l’Accademia e alla presenza di circa la metà dei rettori italiani e del Presidente dell’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca), Paolo Miccoli, l’atarassia colpevole del mondo universitario che, tranne pochissime eccezioni (infatti, solo poco più di dieci docenti si opposero a Mussolini), non mosse un dito per contrastare le scelte liberticide del regime fascista. ‘Tutti obbedirono’, ha tristemente ricordato Mancarella nel suo intervento di apertura dell’evento, e cita le parole di Don Milani ‘L’obbedienza non è una virtù’. Quello che colpisce maggiormente non è tanto l’assenza di coraggio o lealtà dei colleghi di allora, quanto piuttosto la constatazione che quell’accademia ha rinunciato ai principi della scienza, favorendo invece l’ideologia e la convenienza. In seguito, la ricerca in ambito genetico ha chiaramente dimostrato che il concetto di razza non ha nessun fondamento e che gli esseri umani appartengono tutti all’unica specie dell’Homo sapiens. Ma allora, perché continuiamo a manifestare dei pregiudizi verso persone che sono diverse da noi perché hanno un diverso colore della pelle, vengono da un altro paese, o parlano un’altra lingua?
Psicologi e neuroscienziati hanno cercato di rispondere a questa domanda con ricerche condotte prevalentemente, ma non esclusivamente, nel contesto delle relazioni sociali tra europei-americani e afroamericani negli Stati Uniti. I punti principali che si possono estrarre da una ricognizione della letteratura sono tre. Il primo riguarda i processi cognitivi e le emozioni al lavoro nella percezione degli altri, il secondo le basi neuronali sottostanti. Nei vari studi si osserva ripetutamente come gli europei-americani (ingroup) siano influenzati da atteggiamenti e stereotipi negativi nei confronti degli afroamericani (outgroup), in agguato anche nella percezione che gli uomini hanno delle donne o che i giovani hanno degli anziani, per fare solo alcuni esempi. I pregiudizi che ne derivano emergono già dopo alcune decine di millisecondi e non raggiungono il livello della consapevolezza, cioè le persone non sanno (o non ammettono consapevolmente) di provarli. Quando agli europei-americani viene chiesto di valutare direttamente gli ‘afroamericani’, essi affermano esplicitamente di non avere pregiudizi nei confronti di questi ultimi; quando invece vengono adottate misure implicite dell’associazione tra concetti quali ‘bianco’ e ‘nero’ e attributi quali ‘buono’ e ‘cattivo’, gli europei-americani risultano in realtà prevenuti nei confronti degli afroamericani. Le persone dicono cose diverse da quello che pensano per evitare di entrare in conflitto con le norme sociali e per il desiderio di apparire prive di pregiudizi. Questo bisogno di conformarsi alle norme sociali comincia a emergere verso i dieci anni.
Secondo, la percezione e categorizzazione degli altri e il controllo delle nostre riposte sono a carico di una rete di diverse regioni cerebrali: l’area fusiforme dei volti, l’amigdala, e due regioni frontali (le cortecce dorsolaterale prefrontale e cingolata anteriore). Il coinvolgimento dell’area fusiforme è principalmente dovuta al fatto che, negli studi considerati, sono state utilizzate fotografie di volti. Quest’area riflette a livello neuronale l’effetto same-race advantage per cui le facce ingroup sono riconosciute meglio di quelle outgroup. Tale vantaggio non è innato e dipende molto dall’esperienza. Inoltre, livelli bassi di attivazione di questa area sono associati con l’emergere dell’Other-race effect secondo cui gli individui outgroup sono percepiti come più simili fra loro. È stato anche proposto che il pregiudizio contenga, oltre a una componente emotiva (che vedremo tra poco), anche una componente percettiva: poiché i volti outgroup richiedono uno sforzo percettivo maggiore, il pregiudizio nei loro confronti aumenta. L’avversione automatica per i volti outgroup è associata a un aumento dell’attività dell’amigdala, e non potrebbe essere diversamente visto che è implicata nell’elaborazione delle emozioni specie se negative o ad alta intensità. Questo dato non è però universale: il coinvolgimento dell’amigdala è stato osservato per gli europei-americani che osservano i volti degli afroamericani, ma non viceversa. Rispetto a individui neurologicamente intatti, i pazienti con lesioni dell’amigdala trovano le espressioni di paura come meno spaventose. Si pensa che l’attivazione dell’amigdala e delle risposte implicite negative potrebbe rispecchiare l’apprendimento di regole sociali all’interno di una data cultura e periodo storico. Tuttavia, sebbene abbiamo imparato ad avere paura di chi è diverso da noi, il coinvolgimento dell’amigdala diminuisce quando i volti outgroup sono di persone note e rassicuranti e, in generale, il pregiudizio nei loro confronti cala con il ripetersi della loro esposizione. La rete cerebrale comprende anche delle regioni frontali il cui coinvolgimento è spiegabile con la messa in campo di processi di controllo dell’informazione relativa ai membri outgroup. La corteccia cingolata anteriore potrebbe intervenire a mitigare il conflitto tra la risposta automatica, portatrice di pregiudizio, e le intenzioni più concilianti di un individuo.
L’ultimo contributo della ricerca neuroscientifica preso in considerazione è, in realtà, una buona notizia. La conoscenza di come sono regolate mentalmente le rappresentazioni dei gruppi sociali ha permesso agli studiosi di mettere a punto tecniche e strategie che possono aiutare a regolare pregiudizi e attitudini negative. Ne è un esempio la tecnica di riesame (reappraisal) che ha lo scopo di ridurre le emozioni negative nei confronti dei membri outgroup, chiedendo alle persone di re-interpretare la loro percezione dei membri outgroup, in modo da ridurre l’effetto di attitudini implicite sulle decisioni per esempio in contesti lavorativi o nelle aule di giustizia. Queste tecniche, però, presentano dei limiti, perché il loro beneficio ha vita breve e richiedono molto pratica.
Sono allo studio anche altri approcci che si prefiggono di cambiare l’associazione negativa originaria, eliminando così la necessità di esercitare il controllo cognitivo sulle emozioni indesiderate. Anche il contatto fisico tra due persone appartenenti a due gruppi diversi favorisce la riduzione del pregiudizio implicito e aumenta la tendenza a collaborare con un membro outgroup, come ha dimostrato Andrea Carnaghi.
Dopo le scuse, i professori ritornano all’università. L’Unione Europea ha emanato delle raccomandazioni con lo scopo di integrare le competenze per la cittadinanza attiva e per l’apprendimento permanente nelle politiche educative dei singoli paesi membri. Una di queste riguarda esplicitamente l’agire in modo autonomo e responsabile, conoscendo e osservando regole e norme, con particolare riferimento alla Costituzione, collaborare e partecipare comprendendo i diversi punti di vista delle persone. L’accademia italiana non aspetti 80 anni per metterle in atto.
Raffaella Rumiati, Scuola Superiore di Studi Avanzati – Trieste
(21 settembre 2018)