“Giusti, luce per l’umanità”

Screen Shot 2018-09-27 at 15.18.27La voce di Leone e Rosina si spezza spesso nel pianto. Loro c’erano. Testimoni diretti dell’eroismo e della fermezza di un uomo che si assunse il rischio di salvare un’intera famiglia di ebrei romani braccata dal regime.
I Di Veroli erano scampati al rastrellamento del 16 ottobre e vivevano in clandestinità da diverse settimane. Oberdan Bardoni li accolse in casa propria, senza alcuna esitazione. Tutti e sette. Una prova di coraggio che lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, ha voluto riconoscere con l’onorificenza più alta: il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.
Questa mattina, al Centro Pitigliani di Roma, la commovente cerimonia di consegna dell’attestato alla presenza delle figlie del Giusto, Rossana e Marisa, e con gli interventi inoltre del Consigliere per gli affari pubblici dell’ambasciata israeliana Ariel Bercovich, del presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello, del presidente dell’istituto Bruno Sed e del presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia.
“Quello di Oberdan era un animo gentile, con pochi eguali al mondo” ha sottolineato Leone. “Persone come lui è il Signore a mandarle” ha confermato Rosina.
Nella sala gremita tanti studenti romani, tra cui gli allievi dell’Istituto di Istruzione Superiore Leonardo da Vinci di Maccarese di cui è stato presentato un filmato sul tema dei Giusti.

La testimonianza di Leone Di Veroli

Era il 16 ottobre del 1943, avevo 16 anni e già fumavo. Abitavamo in Via dei Giubbonari e, quasi come ogni mattina, uscivo e mi mettevo in fila dal tabaccaio di fronte casa per comprare le sigarette. Quella mattina c’era qualcosa di diverso, la zona era particolarmente piena di camionette di soldati tedeschi che, appostate lungo via Arenula, chiudevano tutte le strade che portavano in Piazza. Cercai di capire che cosa stesse succedendo e da quello che dicevano le persone che si trovavano lì vicino a me, sembrava che i soldati tedeschi stessero cercando le famiglie di ebrei in tutta Roma nelle loro case; prendevano tutti uomini, donne, bambini, anziani e non si sapeva bene dove li avrebbero portati. Capii che sarebbe stato meglio se fossimo andati via da casa, perché prima o poi sarebbero venuti anche da noi. Andai in fretta a casa e raccontai tutto a mia madre e a mio padre che subito capirono il pericolo. Eravamo in sette: i miei genitori, le mie quattro sorelle (Wanda, Celeste, Ester e Rosina) ed io, all’epoca unico figlio maschio. Non sapevamo dove andare, mi venne in mente che potevamo salire sul tram, la circolare e girare intorno alla città senza scendere per un po’. La sera tornare a casa sarebbe stato troppo pericoloso, ma dove potevamo andare? La sera andammo a nasconderci nelle grotte sotto al Palatino, qualcuno ci aveva detto che lì non sarebbe mai venuto nessuno a cercarci. Non immaginavamo che per 30 lunghi giorni saremmo rimasti nascosti lì e non eravamo nemmeno soli, anche dei soldati italiani “spogliati”, così detti perché dopo l’armistizio si erano tolti la divisa militare, si nascondevano per paura di essere arrestati dai tedeschi. A casa non siamo più tornati fino alla fine della guerra, il nostro negozio di Largo dei Librai da allora rimase chiuso. Per un mese siamo rimasti nascosti lì, dormendo sui sacchi di iuta lasciati dal vecchio panificio Pantanella ed uscendo a turno per procurarci qualcosa da mangiare. Dopo un mese ci spostammo a vivere per un po’ in un magazzino in vicolo delle Grotte, dove c’era una rimessa dei carrettini e dei banchi del mercato di Campo de’ Fiori. La notte ci sistemavamo a dormire proprio su quei carrettini che di giorno servivano per il mercato. La gente ci vedeva, ma nessuno diceva nulla e se ci chiedevano qualcosa noi rispondevamo di essere sfollati di San Lorenzo, dove la nostra casa era stata bombardata.
Un giorno un mio zio che era patito per il gioco delle carte aveva trovato un amico non ebreo, Bardoni Oberdan, disposto ad ospitarci in casa sua. Lui aveva una fabbrica di reti per i letti, era vedovo e aveva tre figlie femmine e tre figli maschi di cui uno capitano dell’aeronautica militare a Firenze, che quando venne a Roma a trovare suo padre e vide tutta la nostra famiglia in casa con loro venne raccomandato da suo padre di non fare parola con nessuno della presenza di queste persone in casa sua. La loro casa si trovava nel quartiere Trionfale ed era di tre stanze e ci si viveva in 12, 5 loro e 7 noi. La preoccupazione che qualcuno avesse potuto fare la spia era tanta ma nonostante tutto rimanemmo in casa sua fino all’arrivo degli americani, e anche durante la settimana di Pesah fecero di tutto perché potessimo riuscire a non mangiare il hametz. In tutto questo periodo in cui siamo rimasti presso la famiglia Bardoni non potevo rimanere sempre in casa. Avevo con me sempre un documento falso, la tessera della palestra, e mi chiamavo Di Verdi Leonida, di giorno uscivo per andarmi a guadagnare qualche soldo, riempiendo le damigiane di acqua che vendevo nelle case oppure lavorando nella fabbrica dei letti di Oberdan. La sera andavo al cinema con gli amici non ebrei, così da potermi confondere in mezzo agli altri. Mi ricordo che una sera sentimmo gridare forte da fuori che i soldati tedeschi erano lì, entrarono nella sala per controllare i documenti a tutti e siccome avevo saputo che se avevano qualche dubbio, facevano tirare giù i pantaloni ai ragazzi per vedere se erano ebrei, non mi sentii tranquillo e corsi a nascondermi dietro le pesanti tende della sala. Quella sera ho rischiato molto ma, qualche tempo dopo la fine della guerra, Oberdan ci raccontò che un giorno avevamo tutti rischiato il peggio. Non ce lo aveva mai detto ma una volta era seduto al bar ed un gruppo di fascisti gli chiese insistentemente se lui stesse nascondendo una famiglia di ebrei in casa. Malgrado lui continuasse a negare, erano molto insistenti allora lui per sfidarli gli disse che li avrebbe portati a casa sua per controllare con i loro occhi. Si incamminarono con lui verso casa e quasi arrivati al portone decisero di non salire e se ne andarono.
La domenica 3 giugno, il giorno prima dell’arrivo degli alleati a Roma, andammo allo stabilimento Tulli lungo il fiume Tevere, che si trovava sotto Ponte Cavour, con l’intenzione di farci un bagno ma, mentre eravamo lì pronti per tuffarci, dall’altra sponda del fiume sono arrivati i Tedeschi, erano in ritirata ed erano impazienti, avevano il timore di possibili sabotaggi dei ponti e ci intimarono di andare via alla svelta, non ci diedero neanche il tempo di rivestirci. Ricordo che prendemmo i nostri vestiti e in mutande fuggimmo, eravamo contenti che ci avevano mandati via e la gioia continuò perché il giorno dopo, finalmente, arrivarono gli alleati.

(Dai ricordi autobiografici di Leo Di Veroli, raccolti dalla figlia Nadia e letti dal nipote Gavriel Hannuna in occasione di Memorie di Famiglia 2017)