Smemoranda

torino vercelliLa fine della guerra non comportò la conclusione delle traversie per gli ebrei italiani, come anche per quelli europei. Senz’altro si chiudeva il lungo capitolo delle persecuzioni e, con esse, dello sterminio. Finiva definitivamente un’epoca dove il razzismo di Stato aveva costretto l’ebraismo europeo prima ai margini delle società di cui era parte integrante e poi alla mercé di una tempesta di proporzioni immani. I sopravvissuti, dopo essersi ricontati, dovettero fare fronte alle condizioni di eccezionalità e di emergenza che il dopoguerra impose loro. Molti di essi avevano perso buona parte, se non l’interezza, dei loro patrimoni e delle risorse materiali di cui avevano disposto fino al momento della segregazione istituzionale. Anche la rete delle relazioni sociali, esterne e interne alle comunità, alle famiglie, agli individui ne era uscita stravolta. La situazione in cui si trovava la società italiana, dopo cinque anni di guerra, vissuti anche sul proprio territorio, era tale da rendere secondarie le narrazioni delle sofferenze, dei disagi, dei patimenti, delle ingiustizie sofferti dai singoli. Altre cose urgevano, a partire dai primi tentativi di ricostruzione. Lo stesso ebraismo italiano usciva sconvolto dalla tragedia, dovendo riannodare molti fili, a partire dalla piena comprensione di quanto gli si era precipitato addosso dal 1938 in poi. Le proporzioni dello sterminio si sarebbero meglio colte solo con il passare del tempo, a partire dalla conta dei sopravvissuti e dal censimento degli scomparsi. Non di meno, la responsabilità fascista e poi del neofascismo di Salò pesava adesso come un’ombra. Ovvero, era il collo di bottiglia attraverso il quale valutare la condotta dell’intero Paese. Che a sua volta, da subito inserito in uno dei due campi politico-militari e socio-culturali che si fronteggiavano nell’Europa della cortina di ferro, affrontò il tema dei conti con il proprio passato prossimo con fatica e ritrosie. Se il campo delle forze antifasciste era attivo nel continuare a denunciare cosa avesse rappresentato il mussolinismo e, al medesimo tempo, ad invocare una radicale trasformazione democratica delle istituzioni, molte altre forze, conservatrici o comunque moderate, propendevano invece per attenuare i toni e per garantire una più rassicurante continuità con i trascorsi, quanto meno rispetto alla vecchia società liberale. In ciò poi pesava la condotta della Chiesa cattolica, protagonista a modo suo degli eventi, capace di condizionare una parte della successiva discussione, fosse anche solo nei termini dell’omissione o dell’incomprensione del pieno significato (come dell’impatto) di essi. Denunciare la specificità delle leggi razziste, e ciò che da esse era derivato, implicava formulare un giudizio severo sul tracollo sistematico di un intero sistema istituzionale, politico ma anche sull’eclissi di un ordinamento morale. In altre parole, non bastava additare il fascismo; occorreva cogliere le complicità diffuse. L’Italia dell’immediato dopoguerra, e fino all’inizio del 1948, era divenuta terra di passaggio di una parte degli ebrei europei, scampati ai lager e allo sterminio di massa. Qualificati perlopiù come displaced persons, soggiornavano quel tanto che occorreva nei campi profughi prima di imbarcarsi verso le mete di emigrazione, a partire dalle Americhe e dalla Palestina mandataria. Nei processi tenutisi in Italia negli anni successivi al 1945 contro i criminali fascisti, scarsa eco ebbe la questione delle deportazioni e dello sterminio razzista. Le amnistie, i condoni, i colpi di spugna, al pari delle innumerevoli attenuanti che furono riconosciute ai colpevoli, agevolarono questa lunga fase di oblio. Nel mondo ebraico italiano, con la ricostituzione alla luce del sole dell’Unione delle comunità israelitiche, il lavoro più importante fu quello di rimettere insieme le membra sparse, contribuendo a ricomporre le famiglie laddove queste erano state divise, a garantire un minimo di risorse alle persone, a contare chi ancora ci fosse e chi, invece, non poteva più rispondere all’appello. Era parte di ciò valutare l’impatto sconvolgente del recentissimo passato. Ma la prospettiva doveva guardare all’oltre, indirizzandosi verso la ricostruzione. Nessuno poteva dimenticare quanto era appena accaduto ma non pochi faticavano a definire il senso di una catastrofe. Qualche centinaio di ebrei italiani, insieme a molti correligionari di altri paesi europei, partì alla volta dell’insediamento ebraico palestinese, che nel 1948 si sarebbe trasformato nello Stato d’Israele. Si trattava di voltare pagina. Quelli che rimasero, la maggioranza, si confrontò con le asperità, le ritrosie, le incogruità delle amministrazioni, delle burocrazie, delle istituzioni, dello stesso mondo politico nei riguardi dei sopravvissuti. Già si è detto quello che occorre al riguardo. La faticosità del riconoscimento delle offese subite era una questione squisitamente politica. Anche a crescente distanza di tempo, infatti, la reticenza permaneva poiché si coglievano le implicazioni potenzialmente destabilizzanti: l’assunzione di responsabilità, infatti, avrebbe implicato il riconoscere pienamente che l’Italia intera (non solo quella fascista) aveva perso la guerra che aveva concorso attivamente a scatenare; da ciò sarebbe derivato un tanto severo quanto obbligato giudizio sulla compromissione delle classi dirigenti nel loro insieme, ma anche di una collettività che aveva spesso ciecamente seguito condotte tanto sciagurate quanto scellerate. Era il rimando alla storia di uno Stato moderno e criminogeno. Inoltre, evocava la necessità di una democrazia piena e compiuta che non tutti erano ora disposti a riconoscere come imprescindibile. I risarcimenti economici, le reintegrazioni nei posti di lavoro, le riattribuzioni di diritti concultati, le restituzioni dei patrimoni carpiti si scontrarono quindi con la macchinosità, la farraginosità i bizantinismi di un sistema burocratico costruito non per adempire ai servizi per il cittadino ma per filtrare e rallentare le procedure di soluzione consensuale. La questione economica e sociale richiamava in immediato riflesso quella politica. Tina Anselmi, partigiana e poi parlamentare, presidente dalla Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, nella sua introduzione al Rapporto conclusivo del 2001 affermava:
Gli aspetti materiali della spoliazione dei beni degli ebrei e della loro restituzione sono certamente importanti ma essi non ne costituiscono l’aspetto essenziale. Prima di essere un affare di denaro, la spoliazione è stata una persecuzione il cui obiettivo finale era l’annullamento morale e quindi lo sterminio. Nessuna storia saprà raccontare ciò che uomini e donne hanno vissuto quotidianamente con il conseguente peso d’angoscia, di umiliazione e di miseria. Certamente è questo il debito che si deve pagare, che è stato pagato in tutte le guerre e di cui molti hanno sofferto. Ma nel nostro caso ciò è avvenuto in attuazione di leggi e regolamenti discriminatori che hanno violentemente isolato una parte della nostra popolazione per il solo fatto della sua nascita. È questa una vicenda senza precedenti che non deve mai più accadere, che non accadrà se ciascuno di noi, da oggi, non legittimerà in nessun modo la violazione dei diritti umani che devono essere a fondamento della società e delle leggi del nostro paese.
Parole di buonsenso che parlano al presente come anche del presente. La memoria della persecuzione di una minoranza attiva e densa, da sempre in costante rapporto di interazione e scambio con la maggioranza, non è questione che riguardi esclusivamente la prima e nessun altro. Come non fu solo la feroce partita tra fascisti ed ebrei a costituire l’intelaiatura delle persecuzioni, così a fare da cornice di significato a quelle storie passate deve essere la consapevolezza dell’indirizzo assunto dalla storia del presente, ossia delle scelte che si vanno facendo rispetto all’agenda politica delle democrazie sociali. Tanto più dinanzi ad un’Europa affaticata, dove gli spettri terribili di anni atroci sono ben lontani dall’essere stati consegnati all’armadio della storia.

Claudio Vercelli

Tratto da Claudio Vercelli, «Francamente razzisti». 1938, storia e cronache delle leggi razziali, in uscita per i primi giorni di novembre