Israele e la filosofia dell’acqua

È in una “Adunanza pubblica” – così si chiamano gli incontri organizzati dall’Accademia dell’Agricoltura di Torino che oggi pomeriggio alle 16 il professor Roberto Jona introdurrà e aprirà la conferenza intitolata “La filosofia dell’acqua”, in cui, col sottotitolo “Spunti da una visita in Israele”, approfondirà quanto già raccontato ai lettori di questa newsletter e del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche. Gli altri relatori, infatti – Marco De Vecchi, Enrico Borgogno Mondino, Ilaria Mignani e Francesca Mazzino – sono Docenti di Architettura del paesaggio e di Agraria provenienti da quattro Università italiane che hanno partecipato al viaggio organizzato dal professor Jona (già Docente di Colture arboree della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino) alla scoperta della realtà israeliana.

Riproponiamo qui il suo racconto del viaggio, pubblicato sul numero di luglio di Pagine Ebraiche.

La logica dell’acqua

Durante un viaggio in Israele di un gruppo di professori di quattro diverse università del Nord Ovest Italiano, il tema dell’acqua è balzato in primo piano. Periodicamente in Italia si sentono lamentele per la siccità, ma in Israele il problema è endemico. È stato quindi interessante e istruttivo capire come è stato affrontato e, in base a quanto è stato possibile vedere, risolto in modi diversi, ma sempre brillanti e spesso affascinanti.
Il primo caso è stato con un parco pubblico: entro il perimetro comunale di Herzlyia. Dove si incontra un problema particolare: durante le piogge invernali si ha un accumulo appena sotto la superficie del suolo di grandi quantità di acque, che ristagnano, creando una zona malsana e comunque problematica. Il problema era, ovviamente, presente anche nell’ antichità tanto che il Talmud (svariati secoli prima dell’ Era Volgare) riferisce che il Coen Gadol invocava il Signore affinché le piogge invernali non arrecassero danno agli abitanti della zona, lo Sharon. Il problema persiste ancor oggi e nel creare il Parco non si sono eliminate le acque, ma si è scelto di governarle, convogliandole in una serie di strutture idrauliche per realizzare laghi, stagni, piccoli corsi d’acqua di valore paesaggistico e naturalistico. Si è voluto mantenere il carattere di “zona umida”, e invece che abbandonarla a se stessa sono state create correnti e circuiti di acque, depurati mediante il saggio e abile impiego della fitodepurazione. In un paese arido è una situazione sorprendente, ma non dimentichiamo che i primi chalutzim, alla fine dell’‘800 e agli inizi del ‘900, dovevano lottare proprio contro le paludi e la conseguente piaga della malaria. Il giorno seguente, il problema dell’acqua era diverso. Non molto distante da Herzlyia, tra Netanya e Tulkarem c’è un impianto che raccoglie e governa le acque di un comprensorio comprendente circa 56 000 ettari, 40 villaggi di vario tipo e una popolazione di poco più di 40 000 persone. Qui i metodi di purificazione sono molteplici e complessi. Si parte dal governo e dalla raccolta delle acque piovane del comprensorio, nel quale è incluso il Nahal Alexander, che da torrente semipaludoso ed inquinato a partire dal 1995, ad opera del KKL, grazie alle offerte degli ebrei italiani, è diventato l’asse di un parco particolarmente attraente e assai frequentato. La visita si è però concentrata sul lago artificiale creato dall’ Ente della Valle Hefer dove vengono convogliate le acque di origini diverse: le acque reflue di Netanyia ( bianche,grigie e nere tutte debitamente purificate),e quelle di alcuni villaggi, le acque di sgrondo delle varie valli del comprensorio della Samaria, a monte della valle Hefer. Il risultato: un ampio lago artificiale che oltre che serbatoio per l’irrigazione delle colture agricole, serve anche da zona di ristoro per i volatili migratori. Dai conti effettuati dagli esperti sembra che sopra Israele passino 50 milioni di volatili migratori all’ anno! Una zona umida costituisce quindi un ausilio alla loro sopravvivenza e un attrazione durante la migrazione.
Il direttore di Emeq Hefer ci mostra i “confini” dei “territori”: dal tetto della palazzina vediamo come sarebbe ( e come era!) stretto Israele: 12 chilometri che si colgono con un’ occhiata sola. Una manciata di chilometri di pianura che un carro armato ostile potrebbe percorrere in un quarto d’ora!Un brivido corre nella schiena!
Lasciato questo piccolo, ma brillante capolavoro tecnologico di idraulica agraria, più a Sud a qualche decina di chilometri da Tel Aviv si trova Palmachim, un kibbutz dove una giovane dottoressa, Iris Sutzkover-Gutman, dirige una “fabbrica” sorprendente: “fabbricano” acqua dolce. Sono in riva al mare e, con ogni precauzione per risparmiare energia, prelevano milioni di metri cubi di acqua dal mare,dalla quale rimuovono il sale, nonché il boro (che è presente in eccesso per l’alimentazione umana) e la forniscono agli acquedotti di tutta Israele. Non solo: Israele in base al trattato di pace del 1979 deve fornire 50 milioni di metri cubi di acqua alla Giordania e buona parte di quest’acqua è “fabbricata” qui. A dispetto della catastrofica previsione che la prossima guerra in Medio Oriente sarebbe scoppiata per il possesso dell’acqua, chi più della Giordania può desiderare che Israele viva ? Il sistema di estrazione è quello dell’osmosi inversa. Quindi non più risparmio dell’acqua piovana, ma fabbricazione partendo da quella fonte sterminata che è il mare. Un’altra logica altrettanto rigorosa, ma diversa: siamo a pochi chilometri da Emeq Hefer, ma qui si ragiona diversamente! Più a sud ancora a Meitar (a una ventina di kilometri da Beer Sheva) Itshack Moshe illustra le fini tecnologie del KKL per rallentare il corso tumultuoso delle acque piovane, evitando l’erosione del terreno e convogliare le acque verso le piante della foresta. Il risultato, soprattutto dopo aver attraversato una zona desertica è sorprendente ed affascinante: una foresta che sembra alpina! Ma le realizzazioni più sorprendenti si trovano nell’ Aravà. A pochi chilometri dalla leggendaria e biblica Sodoma, un insediamento, Hatzeva, con la doppia funzione di sperimentazione e produzione, ha montato delle “serre” coperte da robusti, ma sottili tessuti discretamente trasparenti che hanno la doppia funzione di ombreggiare e proteggere dal vento del deserto che prosciugherebbe tutti i liquidi delle piante coltivate. All’ interno di queste serre il clima è decisamente caldo e la luce forte, ma entrambi sono mitigati rispetto all’ambiente esterno. L’irrigazione con acqua salmastra, ricavata dalle falde del deserto è effettuata a goccia , così da lasciare il sale sulla superficie del terreno, mentre l’acqua priva di sale scende in profondità ad alimentare le radici delle piante. I risultati sono spettacolari: Tralci lunghi anche 12 metri, carichi di pomodorini saporitissimi. Piante alte oltre 2 metri, cariche di grossissimi peperoni, albicocchi con i frutti in maturazione a metà aprile e vigneti con l‘uva in fiore. Fuori delle serre, viali di palme Medjoul con i grappoli di frutti in rapida crescita. Per ottenere un incremento delle dimensioni dei datteri si procede al diradamento dei frutti: il risultato è quello portentoso (e saporito) che troviamo sui nostri mercati. Infine una visita ad un originalissimo orto “botanico”, all’ Università Ben Gurion di Beer Sheva, costituito da una grande varietà di piante grasse produttrici dei più diversi tipi di frutti. I più promettenti sono quelli di Pittayia, molto aromatici, con un vago sapore di vaniglia e con bellissimi fiori distribuiti su rami “grassi”, lunghissimi e belli da vedere. Ma il prodotto più affascinante sono i fichidindia senza spine. Una mutazione selezionata dal Prof. Mizrahi, la quale può costituire la base per una fiorente agricoltura di zone aride di tutto il mondo. Malgrado l’ ambiente arido, o forse proprio per questo, le foglie (botanicamente: cladodi) del ficodindia sono ricche di liquido che la pianta accumula e trattiene: somministrate come foraggio ad animali lattiferi (vacche,capre,ovini) sostituiscono validamente i grossi quantitativi di acqua che occorre somministrare a questi animali per supportare la produzione del latte.
Una logica comune lega tutte queste realizzazioni tra loro, ma al tempo stesso i modi di ricerca e i metodi d’impiego dell’ acqua sono ognuno diverso dall’ altro, ma a ben vedere è la sete che guida tutti i ricercatori versa una meta unica: l’acqua dolce. Per sé, per gli animali e per le piante. In fondo è il sogno plurimillenario degli Ebrei che attraversavano il deserto che diviene realtà grazie alla tecnologia e rende il Paese quella Terra Promessa che il Signore aveva garantito agli Ebrei che esitanti ed incerti attraversavano l’aridità del Sinai. Ciò che lascia stupiti e sorpresi è come gli israeliani abbiano affrontato queste varie tecnologie in modo approfondito e radicale, ma separatamente una dall’ altra. Ogni metodo ha una sua logica e ogni sistema vive di vita propria: solo alla fine si incontrano e si supportano a vicenda: l’acqua del mare, dissalata, va negli acquedotti, da cui deriva indirettamente la produzione di una parte di acque reflue che vengono utilizzate per irrigazione. Mentre le piante grasse o l’ utilizzo delle acque salmastre del deserto fanno storia a sé: qui non occorrere più percuotere la roccia per dissetarsi, bastano le falde sotto le sabbie e le radici delle piante.

Roberto Jona, agronomo – Pagine Ebraiche luglio 2018

(3 ottobre 2018)