Ticketless – Amici veri
Il 17 ottobre del 1978 moriva a Salisburgo Jean Améry. Mi piacerebbe che qualcuno lo ricordasse a quarant’anni dalla scomparsa. I suoi libri sono oggi poco fortunati, non hanno la stessa popolarità di quelli di Levi. Il 23 ottobre del 2003 moriva l’astrofisico Nicolò Dallaporta: a quindici anni dalla sua scomparsa vorrei che ci si ricordasse pure di lui. Nell’imminenza del centenario della nascita di Primo Levi, la cui celebrazione è alle porte, vorrei che venisse restituita la giusta parte di gloria anche a chi, come Améry e Dallaporta, contestarono Levi su punti cruciali. Saranno amici veri come loro ad evitarci di cadere nel 2019 in una beatificazione, un ipse dixit inglorioso che serpeggia qua e là nella critica su levi dell’ultima generazione. Il duello a distanza fra Levi e Améry sul tema delle responsabilità dei tedeschi (e sul tema del perdono) è uno di quei dialoghi grandiosi del secondo dopoguerra osservando i quali riesce difficile scegliere da che parte stare. È un dialogo per intensità secondo solo al dialogo che divise la Arendt e Scholem. Io, per esempio, ondeggio fra Scholem e Arendt un mese sì e uno no, ma non me la sentirei di dare tutti i torti a Améry.
Su scala minore si colloca il duello Levi-Dallaporta. Purtroppo di questo giovane docente di fisica dell’Università di Torino, nulla si sa e soprattutto nulla si dice in queste settimane di rievocazioni delle leggi razziali. La settimana scorsa pronunciavo qui l’elogio delle “pecore matte” cioè di coloro che alla infamia di opposero. L’Università di Torino dopo il 1938 conservava numerosi docenti antifascisti in cattedra, taluni veri militanti. Tutti al di là delle belle parole di commiserazione chiusero la porta in faccia allo studente Levi che chiedeva un professore con cui fare la tesi. Lo accolse un docente giovanissimo, cattolico fervente, incuriosito dal tema del Male e da una visione religiosa, quando non telepatica e misteriosofica della ricerca scentifica. Fu grazie a lui se Levi poté completare i suoi studi. Rientrato dal Lager, Dallaporta tentò di convincere il sopravvissuto dei Lager a dare una spiegazione mistica della sua salvazione. Non ci riuscì, ma gli argomenti addotti da quella strana figura di “pecora matta” che era il triestino Dallaporta accompagnano e talora mettono in crisi le certezze positivistiche dello scrittore torinese fino ai Sommersi e i salvati inclusi.
Alberto Cavaglion
(3 ottobre 2018)