“Il fascismo è parte di noi”
Un’imponente lettera nera puntata. Questa la copertina del nuovo libro di Antonio Scurati, M. Il figlio del secolo, edito da Bompiani e presentato nelle sale del Circolo dei lettori di Torino. Più di ottocento pagine compongono quello che sarà il primo volume di tre opere su Mussolini e il fascismo, declinate nella formula romanzo-documentario. Principale intento dell’autore è raccontare questa parte della storia come non era mai stata raccontata: in maniera equanime, servendosi di fonti antifasciste, come fasciste: “La letteratura non può raccontare anteponendo un giudizio storico, un filtro politologico, altrimenti si fa ideologia”. “Raccontare la storia vuol dire ricostruire quello che è stato, dopodiché mi definisco antifascista”, commenta Scurati.
A smontare e rimontare le pagine di M. assieme all’autore, è Giuseppe Culicchia, che declina l’attualità del libro in termini antropologici, più che storici o politici, perché “ad essere narrata è la storia di come siano fatti noi italiani”. Definirlo romanzo storico sarebbe riduttivo, spiega, perché lo sforzo intellettuale di Scurati si è spinto oltre: “Ha scavato a fondo, ha scavato il rimosso di questo paese che coinvolge il fascismo e non solo”.
Sono pagine magmatiche, ricche di dettagli, di fonti, che si trascinano dietro una fiumana di personaggi. Il risultato: un romanzo corale che di inventato non ha nulla, un’introspezione della storia che si restituisce al lettore complessa e stratificata. Una narrazione che per analizzare il fascismo sceglie il punto di partenza e non la sua fine: 1919, la prima apparizione pubblica di Mussolini, per poi seguirne le tracce, i percorsi, gli avanzamenti, fino all’assassinio Matteotti nel 1924. Poi l’analisi si interrompe.
“Ti rendi conto di aver scritto un libro molto serio in un paese dove la serietà latita?”. Così Culicchia passa la palla all’autore. Infatti è lo stesso Scurati ad aver parlato nel libro del carattere degli italiani – “siamo sempre tra la tragedia e la commedia, ma la serietà non ci appartiene”. “Si tratta di una frase ricorrente nelle mie opere”, specifica, “una chiave di comprensione del mio tempo e del mio paese”. Ciò che avrebbe potuto mettere un argine a questa fiumana senza farla sprofondare nell’abisso, sarebbe stata la serietà, la dignità personale e non l’eroismo: “Se fossero stati seri, non avremmo avuto il fascismo, almeno, non in questa forma”. “La serietà – prosegue – è una lezione che deve fungere da metro per misurare anche il nostro presente”.
Un presente che non condivide con il fascismo la violenza, intesa come violenza talmente quotidiana da essere normalizzata. Elemento comune invece, è lo scontento, il vero lievito del fascismo, il senso di privazione, il fatto di definirsi derubati da una casta, parola coniata dallo stesso D’Annunzio che nel 1919 bolla proprio così la vecchia classe politica. E conclude: “Se Benedetto Croce definiva la politica teatro, ecco dove dobbiamo puntare i riflettori: non sui gruppi di estrema destra, gruppi che esplicitano la propria appartenenza. Non è lì che ritorna il fascismo, ma è in quel senso di scontento che serpeggia non sul palco degli istrioni, ma tra la platea del pubblico”.
Alice Fubini
(5 ottobre 2018)