“Le parole costruiscono l’identità”

La presente edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, la diciannovesima, è dedicata allo Storytelling.
A dir la verità è un termine che non mi piace, non è per vezzo linguistico campanilista, ma perché in fondo non restituisce tutta la ricchezza semantica che noi attribuiamo al verbo “raccontare” o “narrare”.
Come se, avendo introdotto l’oggetto del raccontare (story), si fosse limitata la grandiosa ampiezza delle possibilità di una tale azione, così centrale nella storia ebraica.
In ebraico, tra i diversi termini utilizzati per definire il racconto, troviamo quello di ma’aseh, che contiene la radice del verbo la’asoth, fare.
Raccontare, narrare è al contempo essere partecipi della creazione, costruire una realtà, costruire la propria identità.
Gli ebrei per secoli hanno portato con loro, al centro della loro esistenza, la parola, quella scritta, nel Tanakh, e quella orale, il diluvio di commenti, esegesi e riflessioni che hanno dato forma all’ebraismo, quello rabbinico, del quale noi oggi siamo eredi e continuatori.
Quella parola, scritta e orale, spesso si manifestava in forma di racconto, come racconto è certamente quello della Creazione del mondo e come quello di Noè del quale proprio questa settimana si è letta la storia in tutte le Sinagoghe del mondo.
I primi due libri del Pentateuco sono pieni di storie, di narrazione, di maasoth, strumenti di costruzione dell’identità di un popolo, attraverso il loro millenario ripetersi, di padre e di madre in figlio e figlia, e attraverso i racconti che la tradizione interpretativa ha fatto fiorire intorno alla Torah.
All’interno del Talmud troviamo i Midrashim, parabole utilizzate dai maestri per interpretare la Torah, per dare indirettamente insegnamenti di vita, per fare alachà.
Attraverso le parola, quindi, l’ebraismo, che per secoli ha messo al centro lo studio, ha costruito la propria identità.
Il racconto, quindi, non ha banalmente ad oggetto “una” storia, una storia qualunque, ma “la” storia, quella innanzitutto di chi la racconta ma anche quella di chi la ascolta o la legge.
Quando a Pesach, raccontiamo la schiavitù e la liberazione dall’Egitto, noi ebrei stiamo raccontando la nostra storia, non quella dei nostri antenati.
“In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se fosse uscito dall’Egitto”.
Identificarsi con la propria storia significa acquisire coscienza della propria condizione esistenziale e storica.
La giornata di oggi è quindi stata costruita per conoscere questa tradizione ma anche per perpetuare il racconto di una identità. Con Rav Carucci e Rav Momigliano andremo ad approfondire proprio le radici di questa storia e i nessi profondi che la tengono insieme.
Nella tavola rotonda del pomeriggio sarà la letteratura ebraica, la forma principe di espressione narrativa, ad essere analizzata per capire come, nonostante, le diverse epoche storiche, i diversi spazi geografici e, cosa non da poco, l’utilizzo di lingue diverse, si possa comunque parlare di letteratura ebraica.
Questa mattina dedicheremo uno spazio importante al teatro.
Intanto perché è una forma di linguaggio che gli ebrei hanno sempre utilizzato, e ce lo spiegheranno Andrè Ruth Shammah e Miriam Camerini, e poi perché è in fondo ciò che ci permette di parlare della nostra Comunità.
Se infatti dovessimo parlare della narrazione in riferimento alla Comunità ebraica di Genova, dovremmo parlare della narrazione di una assenza.
La nostra Comunità non ha una storia importante alle spalle, a differenza di altre comunità italiane, e fondamentalmente ciò è dovuto al fatto che, salvo rare e brevi parentesi, agli ebrei non è stato permesso di insediarsi a Genova.
Questo fatto, dovuto principalmente a motivi religiosi ed economici, ha impedito quella costruzione di identità specifica, che avviene proprio attraverso la narrazione, il racconto della propria storia.
Non c’è una storia degli ebrei a Genova, intesa come storia autoprodotta, alimentata dalle proprie narrazioni, tramandate per generazioni.
C’è una storia più fredda, per quanto importante, fatta di documenti, di atti della Repubblica di Genova, della Chiesa e di atti notarili, documenti formali grazie ai quali, e grazie a chi li ha studiati (Zazzu e Urbani) sappiamo oggi perché non c’è una storia da raccontare.
La Comunità di Genova che noi conosciamo è di fatto nata centocinquanta anni fa, a seguito dello sviluppo economico della città, ed è cresciuta così velocemente ed altrettanto velocemente si è ridimensionata. Alcuni storici come Stella Rollandi e Chiara Dogliotti hanno provato a raccontare pezzi di questa storia, ma di nuovo la sensazione è che manchi quella componente di autoproduzione tipica della tradizione ebraica.
Ecco perché l’omaggio miglior può avvenire parlando di teatro. Perché proprio attraverso il Teatro la Comunità ebraica di Genova ha dato i suoi frutti migliori.
Alessandro Fersen, Aldo Trionfo ed Emanuele Luzzati, hanno raccontato storie, narrato mondi, e lo hanno fatto, comunque, intrisi profondamente della lora identità ebraica, ciascuno a suo modo, ovviamente.
Il Teatro come narrazione di una storia, una forma espressiva meno lineare del romanzo e del racconto, forse non a caso uscita fuori in questa città, che quando produce cultura lo fa “a denti stretti”, come dice un proverbio genovese, scrivendo poesie, canzoni d’autore e oggi anche musica rap.
La parola, pur asciugata e essenziale, accompagnata dai gesti e dalle scene, è, almeno qui, il racconto della nostra storia.

Ariel Dello Strologo, presidente Comunità ebraica di Genova

(14 ottobre 2018)