…disumanità

Capita ogni volta che ricordiamo come siamo stati trattati, il male che ci hanno fatto, la crudeltà che hanno riversato su di noi, l’indifferenza che ci hanno riservato i molti che si sono girati dall’altra parte. Succede troppe volte all’anno. Capita oggi, per l’anniversario della deportazione degli ebrei da Roma, e capita quest’anno, per l’anniversario delle famigerate leggi razziste, e ricapiterà in tutte le date che ci ricordano, ogni anno e più volte l’anno, la persecuzione e la deportazione dei nostri cari dalle città e dai paesi d’Italia. Ogni giorno di quei troppi giorni, se siamo umani, se non viviamo di egoismo, non si riesce a non pensare a quanto male l’uomo può fare all’uomo. E non si riesce a non riflettere su quanto anche piccoli gesti, di comprensione, di umanità possano salvare una vita, e possano aiutare un disperato a sopravvivere con un minimo di dignità. Se si è anche minimamente umani, se non si vive di egoismo.
Penso oggi, con le dovute proporzioni, con le dovute differenze, a quanto la disumanità non accetti mai di imparare nulla. Penso, così, a Riace e ai disperati accolti dalla gente comune e rifiutati dallo stato. Penso ai ragazzini di Lodi la cui diversità viene respinta dall’istituzione e soccorsa invece senza esitazione dalla gente comune. Perché, per fortuna c’è ancora la gente comune.
Quando la disumanità è delle istituzioni, quando la gente comune è migliore delle istituzioni e da esse non ha nulla da imparare, il paese è già contagiato dall’infamia. Nessun alto punto di riferimento, nessun richiamo a principi etici, allo spirito di solidarietà. Barbarie e giungla. E un sano, salvifico egoismo.
In giorni come questi, e tutti i giorni, mi ricordo di mio padre e di mia madre che, in fuga dai nazifascisti, con il figlioletto di un anno, strisciando fra i reticolati, entrano in Svizzera, e lì vengono accolti e trovano salvezza.
Spero tanto che il ministro Salvini e l’assessora Belloni di Lodi non debbano mai occuparsi di ebrei. E mi angoscia che da loro dipenda invece la vita e il destino degli immigrati.
La Torah insegna: “Se ci sarà un povero fra di voi, uno dei tuoi fratelli in una qualsiasi delle tue città, nella tua terra… non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la tua mano contro il tuo fratello povero. Ma, aprire, aprirai la tua mano a lui…”. E il Talmud commenta che la ripetizione – la doppia forma del verbo – apparentemente superflua, ha un significato preciso: “aprire, aprirai” (“Patoach tiftach”) la mano al povero, anche se egli non è originario della tua città. E Rashì commenta che dovrai aprire la tua mano “anche molte volte”.
Grandi principi da cui la nostra civiltà ha ancora molto da imparare.

Dario Calimani, Università di Venezia

(16 ottobre 2018)