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Uno degli aspetti forse più sorprendenti nel racconto della akedà – la “legatura di Isacco sull’altare per il sacrificio” – lo troviamo nella conclusione; è noto che nella narrazione dell’evento viene espressa per due volte la condivisione, da parte di Abramo ed Isacco, del percorso verso il luogo destinato al compimento della prova: “Entrambi proseguirono insieme il cammino”, condivisione di fede assoluta nell’Eterno, fino alla disponibilità al supremo sacrificio per adempiere alla Sua volontà. Meno noto è il fatto che un’espressione quasi identica si trova nell’epilogo, quando Abramo si ricongiunge con i due servi che, dopo averlo seguito per un tratto di strada, erano stati lasciati in disparte dal patriarca per recarsi – egli solo con Isacco – verso il luogo indicato dal Signore: “Abramo torno dai suoi servi, si alzarono e si recarono insieme a Beer Sheva”. Non è evidentemente una coincidenza casuale. L’esperienza della akedà rappresenta il vertice della esperienza di fede di Abramo e di Isacco, in maniera emblematica esprime anche uno dei punti di riferimento essenziali per l’ebreo: il tempo in cui “Abramo e Isacco” sono da soli, uniti nella prova di fronte a D.O, rappresenta i momenti un cui l’ebreo si separa dal mondo esterno, dall’ambiente non ebraico circostante, si distingue vivendo intensamente il legame con il Signore, attraverso le Mizvot, i Comandamenti della Torah. Però in altre circostanze, rafforzati dall’impegno nella vita ebraica e in tal modo consapevoli della propria identità e dei propri doveri, i figli d’Israele tornano a percorrere tratti di strada con le altre genti del mondo. Il popolo ebraico deve conoscere e vivere i momenti della differenza e della distinzione proprio per poter adempiere pienamente alle proprie responsabilità verso l’umanità intera. Perché Abramo è “Avraham avinu – nostro padre Abramo” ma anche “av amon goym – padre di una moltitudine di popoli”.
Giuseppe Momigliano, rabbino