Orizzonti – L’Europa, l’Ungheria e la crisi dello Stato di diritto
Il recente pronunciamento del Parlamento Europeo nei confronti del governo di Viktor Orbán, leader dell’Ungheria dal 2010, è stato in genere considerato quasi esclusivamente in relazione alla questione delle immigrazioni. In questo senso, ad esempio, anche Andras Veres, vescovo di Győr e presidente della Conferenza episcopale ungherese, ha dichiarato che il governo ungherese «ha solo cercato di difendere l’Europa». Ancora più riduttivamente, molti degli interventi si sono soffermati sulla nota prossimità di vedute fra Orban stesso e Salvini su questo problema, e sulle possibili conseguenze che alla politica italiana in tema di immigrazione potrebbero derivarne, quando non sulle incerte alleanze all’interno del centro-destra di casa nostra. Questa lettura parziale è una vera occasione perduta, perché il documento che la deputata olandese Judith Sargentini ha presentato al Parlamento europeo ottenendone l’approvazione – con una maggioranza superiore alla quota dei due terzi prevista per avviare le sanzioni – riveste un carattere assai più ampio, generale e strategico rispetto al problema pur grave delle migrazioni. Nel denunciare il rischio di una «seria frattura» rispetto ai valori portanti dell’Unione Europea, la mozione illustra infatti, con chiarezza, un processo involutivo di carattere generale e dalle implicazioni politiche di radicale importanza. I rilievi presentati nel report riguardano in realtà ben dodici nodi fondamentali per la vita democratica dell’Ungheria – come per la verità di ogni paese – che è necessario almeno elencare con precisione. Si tratta infatti, nell’ordine, dei seguenti temi: 1. il funzionamento del sistema costituzionale; 2. l’indipendenza del sistema giudiziario e di altre istituzioni; 3. la corruzione ed i conflitti di interesse; 4. la privacy dei cittadini e la protezione dei dati sensibili; 5. la libertà di espressione; 6. la libertà dell’insegnamento universitario; 7. la libertà di religione; 8. la libertà di associazione; 9. il diritto di tutti i cittadini al medesimo trattamento di fronte alla legge; 10. i diritti delle minoranze, inclusi rom ed ebrei; 11. i diritti fondamentali di migranti, richiedenti asilo e rifugiati; 12. i diritti sociali. Rispetto a ciascuno di questi punti il testo documenta violazioni e inadempienze con il riferimento sistematico a documenti elaborati negli ultimi anni dalle stesse istituzioni europee. È questo un aspetto di particolare importanza. Tutti i fatti e le circostanze cui si riferisce il rapporto si fondano infatti su istruttorie ed analisi già note – piuttosto che su valutazioni personali di Sargentini – che il report ordina, organizza e suddivide fra le categorie appena indicate. Così ad esempio per quanto riguarda il funzionamento del sistema costituzionale, risulta che già dal 2012 la Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, organo consultivo del Consiglio di Europa, aveva avanzato pesanti riserve sulle riforme costituzioni avviate da Orbán, che avevano drasticamente limitato le competenze della Corte Costituzionale ungherese. Nello stesso senso il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani, nell’aprile scorso aveva espresso gravi preoccupazioni circa la subordinazione dei giudici costituzionali al potere del governo. Ancora, l’ufficio OSCE per le istituzioni democratiche e i diritti umani aveva affermato che «le elezioni parlamentari [ungheresi] nel 2018 sono state caratterizzate da una pervasiva sovrapposizione fra organismi statali e partito di governo, che ha limitato la possibilità dei candidati di competere su un piede di parità. Gli elettori avevano la possibilità di diverse opzioni politiche, ma una retorica intimidatrice e xenofoba, distorsioni giornalistiche e pressioni economiche sulla campagna elettorale, hanno fortemente limitato lo spazio per un dibattito politico genuino e fortemente limitato la possibilità degli elettori di scegliere in modo pienamente informato». Non è evidentemente possibile ricostruire analiticamente tutti i riferimenti del report, che nel complesso costituisce una lettura davvero di grande interesse. Così, per quanto riguarda il tema della libertà religiosa, il testo ricorda che nel 2012 la Commissione Europea per i diritti umani aveva invitato il governo ungherese a ritirare o modificare una legge dell’anno precedente che aveva privato della personalità giuridica molte organizzazioni religiose ungheresi e limitato il numero delle chiese riconosciute. A proposito dei diritti delle minoranze, il report cita fra l’altro un documento stilato nel dicembre 2016 dal Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, che metteva sotto accusa le forme particolarmente violente di intolleranza anti-rom assunte da norme e istituzioni statali. Una delle pratiche discriminatorie ricordate a questo proposito riguarda il dato statistico circa la quota assolutamente sproporzionata (per eccesso) di bambini rom inseriti in classi differenziali per disabili mentali. Per quanto riguarda l’antisemitismo, lo stesso documento osserva che si tratta di un problema permanente, che si manifesta continuamente con «hate speech» pubblici, incitazioni all’odio e alla violenza, progetti di censimento di stato degli ebrei ungheresi, vandalismi ed affollate manifestazioni razziste. In tema di diritti sociali infine il documento si sofferma sulle politiche di emarginazione attiva di alcune frange particolarmente deboli della popolazione e sulla negazione di diritti elementari. Queste le accuse chiaramente esposte – che riguardano evidentemente i fondamenti stessi dello stato di diritto – contenute nel documento approvato a larga maggioranza. Se pure alcune di tali accuse potrebbero essere estese, in maggiore o minor misura anche ad altri Paesi dell’Unione, nel caso specifico esse convergono a costituire complessivamente una «minaccia strutturale alla democrazia al ruolo della legge e dei diritti fondamentali in Ungheria», un assetto in questo senso antitetico ai valori costitutivi e fondativi dell’Unione Europea. Vi sono dunque sostanzialmente due modi di valutare questo pronunciamento. Se si ritiene che il voto non sia che il risultato di un atteggiamento burocraticamente distratto di chi discute per mestiere decine e decine di documenti, poco più che un atto di routine ispirata ai criteri del politicamente corretto o del tatticismo cinico, allora se ne ricava che la credibilità delle istituzioni europee è prossima allo zero. Se invece sì prende questa approvazione sul serio, cioè come il risultato di una ponderata valutazione politica di dati e processi reali, bisogna ricavarne che la massima espressione della politica europea giudica molto concreto il rischio di una estinzione dello stato di diritto nel cuore dell’Europa, e del potenziale processo di ri-costituzione di un regime autoritario di destra. È d’altra parte vero che non sono molti in Europa i paesi che possono in questo momento fregiarsi del titolo di difensori dei diritti umani e dei sistemi di garanzia. Ecco allora che la condanna del governo di Orbán potrebbe avere il paradossale esito di concedere a tutti una sorta di patente preventiva di democraticità: non è forse un caso che perfino il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha annunciato la mattina del voto che i deputati del suo partito avrebbero votato per attivare contro Orbán la procedura dell’articolo 7. Dopotutto, i «valori fondativi comuni» dell’Unione non sono forse così comuni.
Enzo Campelli, sociologo
Pagine Ebraiche, ottobre 2018