Talmud, in libreria Ta‘anìt
“Prendiamoci cura del creato”

Esce oggi il terzo trattato del Talmud Babilonese tradotto in italiano nel quadro del protocollo d’intesa firmato tra Presidenza del Consiglio dei Ministri, MIUR, CNR e Unione Comunità Ebraiche Italiane – Collegio Rabbinico Italiano.
Si tratta del trattato Ta‘anìt (Digiuno), curato dal rav Michael Ascoli, di cui una copia è stata consegnata negli scorsi giorni nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il digiuno, viene spiegato nell’introduzione a Ta‘anìt, “è la pratica che i Maestri hanno stabilito per adempiere il comandamento biblico di invocare il Signore qualora vi sia una minaccia incombente o quando si sia già stati colpiti”. Tale pratica rimarrebbe tuttavia privo di significato se non fosse accompagnata “dalla preghiera e dall’analisi scrupolosa del proprio operato, tutte componenti essenziali del processo di teshuvà”. L’istituzione del digiuno è quindi strettamente correlata con eventi che possono accadere o non accadere: siccità, carestie, pestilenze, guerre.
In Ta‘anìt si trattano poi tematiche legate ai digiuni fissi, collegati a eventi storici e alla memoria collettiva, nei quali si aggiunge anche la componente del lutto. “In particolare – si legge – i Maestri discutono sui digiuni relativi alla distruzione del Bet haMiqdàsh (il Tempio di Gerusalemme): il digiuno del 9 del mese di Av, che commemora la distruzione del Secondo Tempio, e il digiuno di Ghedalià, in ricordo dell’assassinio del governatore di Gerusalemme dopo la distruzione del Primo Tempio”. A questi si aggiunge il giorno di Kippur per il quale “i Maestri hanno deciso l’obbligo di digiunare deducendolo sulla base del testo biblico”.
Numerosi sono i brani di racconto e insegnamento morale, non strettamente normativi. “Soprattutto – viene sottolineato – per suffragare l’idea che i premi e le disgrazie devono essere intesi come ricompense e punizioni, conseguenti alle azioni dell’uomo”. Alcuni racconti, soprattutto quelli del terzo capitolo, sono inoltre sorprendenti per l’audacia delle loro narrazioni, “sfociando spesso nel miracoloso”; e la lettura non rimane scevra da un senso di inquietudine “di fronte a quella che sembra un’eccessiva severità verso i protagonisti dei miracoli e i loro familiari”.
Si può guardare al trattato di Ta‘anìt, viene spiegato, con nostalgia per la perduta immediatezza nel rapporto con il divino. “La correlazione così netta e diretta fra meriti e pioggia ovvero colpe e siccità ci sembra oggi appartenere a una dimensione lontana, e anche la dipendenza così forte dalla pioggia per la sopravvivenza, almeno per una parte della popolazione mondiale, appare storia passata”. Eppure, anche in un’epoca in cui le previsioni del tempo sembrano metterci al corrente con relativa completezza sui fenomeni climatici, “l’esito di una stagione più o meno piovosa o il verificarsi o meno di cataclismi riguardano ancora l’umanità tutta”. L’immediatezza è forse venuta meno “ma non l’incidenza dei fenomeni naturali che invece è rimasta immutata e in cui gli uomini hanno un ruolo di fondamentale importanza”. In questo senso il trattato di Ta‘anìt “sembra richiamarci a nuove responsabilità e consapevolezza rispetto alla cura della terra”.

(25 ottobre 2018)