Machshevet Israel – La percezione della giustizia
Scriveva Levinas, a margine della sua esperienza in un campo di detenzione (non di concentramento) tedesco – dove era recluso in quanto prigioniero di guerra– che “Bobby”, il cane che accoglieva gli internati al ritorno dal lavoro ‘come se fossero’ umani, era “[l’]ultimo kantiano della Germania nazista” (Difficile Liberté, pp. 231-235). Bobby, privo di quella spessa corazza fatta di parole e propaganda, riconosceva nei profili dei detenuti dei tratti umani, ovverosia animali – di esseri sotto certi rispetti a sé simili. Certo, non basta essere privi della parola umana per essere impermeabili all’addestramento: i cani resi longa manus dei soldati in uniforme nazista ne sono, come riportano le testimonianze, dimostrazione. Tuttavia è l’icastico titolo dell’articolo in cui appare questo passaggio – Nom d’un chien ou le droit naturel – a indicare la direzione di una possibile riflessione, ad un tempo sulla giustizia e sulla percezione. È forse quest’ultima – nel suo elemento più grezzo e primario, quello corporeo, trasversale a più specie – ad essere condizione di possibilità della prima? Del resto non è a una legge naturale che si fa riferimento, in mare, in un luogo fisicamente e simbolicamente distante dalle leggi statali, quando si accoglie chi è alla deriva? Prescrizioni; leggi e loro correlate divisioni in categorie astratte (cittadino, rifugiato, immigrato – per restare in tema), sono parte imprescindibile del nostro vivere sociale. Non è possibile, né forse augurabile, sfuggire da questa presa delle definizioni, intrinseche al vivere collettivo, dove al fatto bruto (l’essere animali appartenenti a una determinata specie) si aggiungono fatti e identità sociali. Tuttavia la logica della classificazione – di per sé neutra – è quella stessa che può avvallare, prima nel comportamento sociale spontaneo poi in quello istituzionale, fenomeni vuoi sporadici vuoi sistematici di esclusione (esclusione dalla classe dei cittadini e così via, sino all’esclusione dal novero di ‘umanità’). Ciò detto, al di là di ogni decisione politica, sembra rimanere sullo sfondo la risorsa della percezione: quella di Bobby; quella di ciascuno di noi, a prescindere dal dispositivo normativo a cui ci troviamo vincolati. Sarebbe dunque un elemento corporeo, in questo senso animale, la condizione prima per il costituirsi di un ideale al quale poter fare appello e conformarsi – anche andando in direzione inversa rispetto a quell’altra tensione, altrettanto naturale, che ci abita, e che va sotto il nome di conatus essendi.
Cosimo Nicolini Coen