Levi e il libro “primogenito”
Alle origini di un successo

Si inaugura oggi pomeriggio a Torino, presso la Biblioteca Nazionale Universitaria “Se questo è un uomo, il libro primogenito”, mostra dedicata al libro che Levi definiva, appunto, “primogenito”. Uscito nella sua prima edizione nel 1947 per la casa editrice torinese De Silva, diretta da Franco Antonicelli, vendette solo mille e cinquecento copie, delle duemila cinquecento stampate. Nonostante le recensioni notevoli, fra tutte quella di Italo Calvino, si dovette attendere il 1958 per l’edizione Einaudi, e ancora alcuni decenni prima che Levi venisse considerato uno scrittore dalla statura pari a quella del testimone.
Se questo è un uomo, ora pubblicato in decine di lingue e ormai considerata opera imprescindibile, torna ora nella sua prima edizione e accanto ad alcune delle copie originali, mostrate attraverso la prospettiva del restauratore, sono esposte anticipazioni su periodici, l’accoglienza della critica e i primi tentativi di traduzione.
La mostra presenta poi anche i primi risultati di una ricerca, ancora in corso, che vuole ricostruire la diffusione delle copie vendute e la storia di alcuni singoli volumi passati di mano in mano nel corso degli anni, per individuare gli itinerari che ne hanno fatto un veicolo di consapevolezza (per chi fosse in possesso della copia originale o di informazioni utili si può scrivere a libroprimogenito@primolevi.it).
Pubblichiamo qui un testo dello storico Fabio Levi, direttore del Centro internazionale di studi Primo Levi e relatore della decima Lezione, intitolata “Dialoghi”.

La forza tranquilla del dialogo

Se questo è un uomo uscì in prima edizione nel 1947. A ridosso dell’esperienza di Auschwitz il libro fu scritto per tutti e per nessuno in particolare. Quando nel ‘58 fu finalmente ripreso da Einaudi gli interlocutori vennero via via precisandosi: in primo luogo i tedeschi, cui fu destinata la traduzione uscita in Germania nel 1961. In secondo luogo i ragazzi delle scuole, con i quali il dialogo si sviluppò in forma sempre più intensa nel corso degli anni ‘60. Tutto questo però in un clima molto difficile. In genere il pubblico era distratto o, per varie ragioni, indifferente e restio all’ascolto; mostrava verso l’esperienza dei Lager incredulità e fastidio, tanto più se l’accento era posto, come pure era giusto che fosse, sull’annientamento degli ebrei.
In quel clima era segno di grande sensibilità non farsi prendere la mano e portare la propria testimonianza in forma equilibrata. Mi riferisco ad esempio alla decisione di Levi di respingere la richiesta avanzata dall’editore di premettere alla traduzione per la Germania un testo che avesse il tono dell’appello al popolo tedesco, della perorazione o del sermone. Al suo posto preferì fosse pubblicato un brano della lettera di ringraziamento che lui come autore aveva scritto al traduttore.
La vicenda è nota, ma forse può assumere un significato più generale. Del tono predicatorio l’autore non poteva accettare né il sovraccarico emotivo, né l’implicito atteggiamento di superiorità verso il lettore. Viceversa, avrebbero dovuto prevalere la chiarezza del discorso e lo scambio reciproco fra l’autore e i suoi lettori.
Per aver offerto un racconto in gran parte inedito – soprattutto per l’interlocutore tedesco -, Levi chiedeva una contropartita: di essere aiutato a “capire meglio i tedeschi”. Tenere a freno le emozioni dunque, e impedire al testimone di farsi protagonista unico e prevalente di un rapporto troppo squilibrato a sfavore dei destinatari del suo racconto; con un obiettivo preciso: per quanto possibile, togliere al Lager il potere che ancora rischiava di avere oltre la sua stessa esistenza, il potere cioè di far sentire debole, incapace e impotente chiunque provasse ad avvicinarglisi.
In questo c’era piena continuità con il tono volutamente pacato, sobrio e ragionevole attribuito a suo tempo al “libro primogenito”. Dare respiro e autonomia di giudizio all’interlocutore, contrastando in tal modo la residua potenza omologatrice e distruttrice del Lager richiedeva però anche un’altra condizione. Che ogni soggetto, cui ci si fosse rivolti da allora in poi, venisse rispettato per quello che era, con le sue esperienze, la sua sensibilità e la sua cultura. Non era cosa facile e Levi apprese progressivamente quell’arte dai suoi primi incontri con gli studenti, nelle lettere di risposta ai tedeschi che gli avevano scritto dopo l’uscita di Se questo è un uomo in Germania, nelle interviste date, con frequenza sempre maggiore, non a caso a partire dai primi anni ’60.
Ogni volta sarebbe stato necessario immaginare il punto di vista dell’altro e farsi condizionare da stimoli e curiosità non sempre graditi. Su questa base si sarebbe poi reso possibile riformulare il proprio discorso in funzione dei singoli interlocutori.
E così fu effettivamente per tutti gli anni a venire. Gli esempi al riguardo potrebbero essere innumerevoli. Fra i tanti mi limito a citarne due soltanto.
L’intervista orale rilasciata nel ’73 a Marco Pennacini, un intelligente ragazzo di 14 anni, risalta per il tono affettuoso e uno sforzo di chiarezza, se possibile, ancora maggiore che in altri casi: l’intervistatore viene lasciato completamente libero di guidare il colloquio, le risposte sono analitiche e molto ricche di informazioni fino a scavare nell’etimologia delle parole, la medesima attenzione è riservata alle domande più ingenue e a quelle decisamente impegnative, l’intervistato cede a volte alla propria curiosità e diventa intervistatore.
Il secondo esempio si riferisce a un articolo in forma di lettera, scritto per Rosanna Benzi, costretta dalla malattia in un polmone d’acciaio e generosa animatrice di una rivista sulla disabilità, intitolata «Gli altri». Come era solito, per raccontare il Lager Levi non esita anche qui a riproporre la trama ricavata dalla propria storia – l’arresto, Fossoli, il viaggio, Auschwitz, ecc. -; la specificità del racconto è data piuttosto dalla scelta degli argomenti, dal ritmo, dagli accenti. In questo caso la persecuzione e Auschwitz sono filtrati attraverso il punto di vista dell’interlocutrice.
Nel ’38 – troviamo scritto – gli ebrei sono stati trattati da “altri” pur essendo italiani come gli altri.
In un atto di amichevole consonanza con la sofferenza di Rosanna, Levi ex-deportato conclude poi che Auschwitz non gli ha tolto il desiderio di vivere, “anzi, me l’ha accresciuto, perché alla mia vita ha conferito uno scopo, quello di portare testimonianza”.

Fabio Levi

(14 novembre 2018)