Periscopio
La legge Stato nazione
Nella mia nota pubblicata lo scorso mercoledì 17 ottobre, dedicata alla controversa Legge fondamentale israeliana sul cd. “Stato nazione”, avevo preannunciato che avrei espresso, in una successiva occasione, alcune riserve sul testo della norma. Prima di farlo, ritengo però opportuno richiamare, in sintesi, i tre punti essenziali affermati la volta scorsa.
a) La legge non ha il potere di creare la natura delle cose, e degli stati. Israele è uno Stato ebraico perché tale è e tale resterà, per sempre, non perché lo stabilisce una legge. E nessuna legge, nessun Parlamento avrebbe mai il potere di modificare tale realtà.
b) Non ci sarebbe stato bisogno di questa legge, se non ci fosse in atto, com’è noto, la progressiva scrittura di una costituzione “a tappe”, attraverso la promulgazione delle varie Leggi fondamentali. Ma, in presenza di questo processo, la definizione della natura ebraica dello stato non poteva essere evitata e, a mio avviso, è stato bene non rimandarla “sine die”, per contrastare le ricorrenti farneticazioni a proposito di “stato unico” e amenità del genere.
c) Quanto all’obiezione secondo cui la norma non richiamerebbe la natura democratica dello Stato, non la ritengo particolarmente fondata, giacché non era questo il tema trattato. La democraticità di Israele è fuori discussione, è sancita a chiare lettere nella Dichiarazione d’Indipendenza e in pressoché tutte le precedenti Leggi fondamentali, nonché nelle leggi ordinarie, nella giurisprudenza, nella prassi ecc. Probabilmente restano ancora dei punti da chiarire, anche a livello costituzionale, probabilmente lo si farà, ma non era questa la sede più adatta per farlo. Mi pare decisamente forzato, comunque, asserire che questa legge – per quanto imperfetta – sarebbe antidemocratica o prevaricatrice, per non dire di peggio.
Quanto alle mie critiche, per quel che valgono, la principale è questa: la legge dice troppo, si sofferma su particolari (come la questione della lingua e il consolidamento degli insediamenti) che sono condizionati dall’evoluzione sociale, culturale e politica del Paese, nonché dai rapporti con i vicini, e che avrebbero dovuto, a mio avviso, essere tralasciati, e affidati, quando necessario, alla legislazione ordinaria. Essere entrati in così specifici dettagli leva forza, a mio avviso, alla disposizione, dando ad essa una connotazione politica che può apparire forzata, e offrendo il fianco alle obiezioni delle minoranze che – a torto o a ragione – si possono sentire da essa discriminate. Ritengo che sarebbe stato meglio limitarsi a elevare a livello costituzionale dei principi già formulati nella Dichiarazione d’Indipendenza, e che nessuno, all’infuori degli anti-sionisti dichiarati, potrebbe mai contestare. I Drusi, per esempio, difficilmente avrebbero potuto dolersi di una legge che avesse semplicemente ribadito i principi della Dichiarazione, che essi già, evidentemente, conoscono e accettano, come dimostra il loro fedele attaccamento al Paese, per cui va loro reso onore (a differenza, purtroppo, di quanto accade con altre, più cospicue minoranze).
Non credo, in particolare, che sarebbe stato necessario stabilire il carattere dell’ebraico come lingua ufficiale dello stato (art. 4). Theodor Herzl aveva pensato al futuro Judenstaat come a un Paese multilingue, e tale profezia non è stata del tutto smentita dai fatti. Nella maggioranza delle case israeliane in cui ho avuto il piacere di entrare, si parlano anche lingue diverse dall’ebraico, e non sono certo case meno ebraiche delle altre. È ovvio che l’ebraico è la lingua unificante del popolo d’Israele, e che la visione di Ben Yehuda ha dato un contributo immenso alla costruzione del Paese, ma non credo che ci fosse bisogno di ribadirlo per legge.
Analogamente, riguardo alle questioni della terra e degli insediamenti (art. 7), dato che la legge evita di specificare quali siano i confini dello stato, sarebbe stato più prudente lasciare tale questione, per la proprio intrinseca delicatezza e fluidità, alla libera dialettica della politica e della legislazione ordinaria. E forse anche gli artt. 8 e 9, riguardo al calendario ebraico come calendario ufficiale dello stato, allo shabbàt e le altre festività, quantunque, evidentemente, innocui, potrebbero apparire pleonastici e ridondanti. La legge non deve dire tutto, lo shabbàt ha una sua forza e sacralità universale e millenaria, che non ha alcun bisogno di essere rafforzata dalla legge.
Niente da dire, invece, riguardo agli articoli 1 e 5 (sulla definizione di Erez Israel come patria storica del popolo ebraico e sul diritto al ritorno degli esuli), che non fanno che ribadire una mera realtà storica e di fatto e la natura irreversibile del Paese, scolpite in modo immodificabile nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Legge del ritorno, del 1950, così come al 2 (sui simboli dello stato), al 6 (sullo stretto rapporto con la diaspora: un articolo, a mio avviso, utile, proprio di fronte agli odierni segnali di allentamento di tale legame, che vanno giustamente contrastati) e al 9 (sulla celebrazione del Giorno d’Indipendenza e sulla commemorazione delle vittime della Shoah e delle guerre e degli Eroi d’Israele, valori fondanti del Paese): tutte formulazioni ineccepibili, che andavano opportunamente elevate a livello costituzionale.
Quanto all’art. 3, su Gerusalemme capitale d’Israele, esso non fa che ribadire la Legge fondamentale già approvata nel 1980. Ripeterne il contenuto potrebbe far sorgere il dubbio che le Leggi fondamentali possano andare in desuetudine, o essere dimenticate. Nel diritto, in genere, “repetita non iuvant” (ricordiamo l’ammonizione di Tacito, “corruptissima republica, plurimae leges”, o di Manzoni, sulle grida contro i bravi, ripetitive in quanto inutili).
La legge, ripeto, era necessaria, e le critiche a essa rivolte mi sono sembrate eccessive. Ma è anche vero che un testo più conciso ed essenziale mi sarebbe piaciuto di più.
Francesco Lucrezi, storico
(14 novembre 2018)