…Abramo/Ulisse

Tra i più acuti e influenti filologi del Novecento, l’ebreo tedesco Erich Auerbach scrisse quello che è considerato unanimemente il suo capolavoro, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (Einaudi), negli anni della Seconda guerra mondiale e della Shoah, quando era rifugiato a Istanbul. Nel primo dei venti saggi che compongono il volume, Auerbach confronta una scena del canto XIX dell’Odissea e il capitolo 22 di Genesi/Bereshit. Nella prima l’anziana nutrice Euriclea riconosce Ulisse tornato a Itaca dopo venti anni di guerra e avventure nel Mediterraneo grazie a una cicatrice provocata da una ferita alla coscia tanti anni prima; nel secondo, compreso nella parashà di Vajerà che abbiamo letto e ascoltato due settimane or sono, Dio mette alla prova Abramo, che conduce il figlio Isacco al monte Morijà per offrirlo in sacrificio.
“Non è facile immaginare contrasti stilistici maggiori che fra questi testi ugualmente antichi ed epici. Da una parte fenomeni a tutto tondo, ugualmente illuminati, delimitati nel tempo e nello spazio, collegati fra di loro senza lacune, in primo piano, pensieri e sentimenti espressi, avvenimenti che si compiono con agio e senza eccessiva tensione”. Questo è lo stile omerico, in cui ogni cosa viene chiarificata, illuminata, completata e dunque non esiste una pluralità di piani. Proprio nel momento del riconoscimento di Ulisse, il poeta inserisce un lungo excursus per raccontare l’origine della ferita al termine di una battuta di caccia, per tornare infine come se niente fosse all’attimo di massima tensione, quello in cui Euriclea riconosce il padrone.
“Dall’altra parte, dei fenomeni vien manifestato solo quel tanto che importa ai fini dell’azione, il resto rimane nel buio; vengono accentuati soltanto i punti culminanti e decisivi dell’azione; le cose interposte non acquistano esistenza; luogo e tempo sono indefiniti e bisognosi di chiarimento; i pensieri e i sentimenti restano inespressi, vengono suggeriti soltanto dal tacere e dal frammentario discorso; l’insieme, diretto con la massima e ininterrotta tensione a uno scopo, e perciò molto più unitario, rimane enigmatico e nello sfondo”. Nel racconto – di poche righe – di Abramo che conduce Isacco in sacrificio, il primo piano si stacca nettamente dallo sfondo. Allo stesso modo, al presente eterno degli eroi di Omero, che come quelli dei fumetti possono morire ma non invecchiano, si contrappone la profondità storica in cui sono inseriti i personaggi biblici. Non sappiamo nulla, per esempio, dei tre giorni di viaggio di Abramo, insieme al figlio, verso il luogo che Dio gli ha indicato, mentre sappiamo tutto della cicatrice di Ulisse. Il silenzio che circonda pochi elementi nella prosa biblica, evidentemente, li evidenzia e consente un molto maggiore lavoro all’immaginazione di ciascun lettore e ascoltatore. Anche per questo, forse, Abramo e Davide, Giacobbe e Samuele sembrano così concreti e vicini, in una parola: storici. Nel racconto delle loro vicende “la sublime azione divina penetra così profondamente nel quotidiano, che entrambi i campi del sublime e del quotidiano non soltanto non sono di fatto separati, ma sono anche fondamentalmente inseparabili”.

Giorgio Berruto