Machshevet Israel – Maimonide e la definizione di blasfemia
Un recente seminario tenutosi alla Sapienza, promosso dallo storico del pensiero religioso Gaetano Lettieri, ha riproposto la spinosa questione della blasfemia, di dolente attualità da quando il terrorismo di matrice islamica compie le sue gesta criminali asserendo di fare giustizia contro i blasfemi (ma anche contro eretici e infedeli). La società israeliana conosce da lungo tempo il fenomeno, che solo con le stragi di Parigi del gennaio del 2015, tra cui l’attacco alla redazione della rivista satirica Charlie Hebdo, ha suscitato una riflessione approfondita in Europa. Un dibattito dopo quelle stragi fu promosso anche a Bologna da Alberto Melloni, ora raccolto nel volume “Blasfemia, diritti e libertà” edito da Il Mulino. Ma ovviamente è la Francia, paladina della laicità, ad essere in prima linea nella discussione su questo tema. E una collega francese, intervenuta al seminario romano, mi segnala uno studio sulla blasfemia nel pensiero di Maimonide scritto da Dan Arbib sulla Revue des sciences philosophiques et théologiques (2/2017). Studiandolo ho imparato che anche nel pensiero ebraico la questione è tutt’altro che semplice, perché se Wajqrà/Lv 24,11-16 è esplicito nel comminare la pena più dura (la lapidazione) per la bestemmia/blasfemia, non è affatto chiaro cosa si debba intendere per questa trasgressione e, come afferma il Rambam nel suo Sefer ha-mitzwot, se a monte della pena sia evidente il divieto (cfr. il sessantesimo precetto negativo, dove si ricorda che stando all’halakhà non si può punire qualcuno se questi non va contro qualcosa che è chiaramente comandato).
Per ricostruire la posizione maimonidea in proposito occorre leggere trasversalmente alcuni passi del Mishnè Torà, del predetto Libro dei precetti e infine della Guida dei perplessi. Se ne evince, riassumo con il rischio di ipersemplificare, che il divieto di blasfemia è certamente fondamentale: Dio lo avrebbe dato ad Adamo già nel Gan Eden, con cinque altre leggi (ad eccezione del divieto di mangiare parti di animali vivi, perché il permesso di mangiar carne venne dato a Noach/Noè solo dopo il diluvio), che noi conosciamo, appunto, come noachidi o leggi per i figli di Noè, per l’intera umanità. Dunque il divieto di blasfemia è primordiale, per così dire, e giustificherebbe la pena radicale con cui è punita la sua trasgressione. In questo il Rambam ribadisce il dettato biblico. Ma quando cerca di dire in positivo in cosa consista questo peccato, il modo di procedere del maestro medievale diventa assai più cauto. Sempre nel Sefer ha-motzwot (quarto precetto positivo) ci si chiede se basti “nominare Dio” per trasgredire. Nominare è solamente pronunciare il Nome? Ma quale nome, dei molti che la tradizione attribuisce a Dio? Il Tetragramma o anche gli altri? E non è forse il caso che si debba considerare l’intenzione con cui Lo si nomina? Più che il semplice ‘nominare’, trasgredisce chi ‘usa’ impropriamente il Nome, o meglio che ne ‘abusa’. Forse sta qui il senso vero della Terza Parola (il terzo comandamento che, alla lettera, proibisce di ‘alzare il Nome’ come si alza un utensile da lavoro, un’insegna sotto cui combattere, un’idea da imporre).
Riducendo al minimo la reale possibilità di trasgredire, il Rambam sembra suggerire che la vera blasfemìa è un atto quasi impossibile all’uomo, come se solo Dio potesse ‘benedire’ (eufemismo semitico per il suo contrario) Se stesso. È un azzardo speculativo ma di grande valore pedagogico: si punisce il bestemmiatore con il massimo della pena ben sapendo che quasi nessuno rientra davvero nella categoria di questa trasgressione. Kantianamente diremmo che la severa proibizione della bestemmia è un ideale regolatore nella vita umana, sia politica sia religiosa. Nella Guida (III,38) e nel trattato Avodat kochavim (II,7-8) abbiamo una pista di spiegazione per tanta severità: è blasfemo (ha-megadef) chi non sa distinguere Dio dagli idoli. Dunque la bestemmia o blasfemia sarebbe un effetto dell’ancor più radicale peccato di idolatria, e il divieto di ‘nominare’ o meglio ‘usare il Nome’ non è che un precetto preventivo per preservare dall’idolatria o per sradicare la tentazione stessa dell’‘avadà zarà, del culto alieno al vero servizio divino. Non sarà un ragionamento lineare, ma mette in guardia dal vedere blasfemie ad ogni angolo del mondo e soprattutto dal sentenziare con leggerezza.
Le legislazioni civili contemporanee vanno tutte in questa direzione di cautela e riserva concettuale: ecco perché nel diritto penale, almeno in Occidente, i crimini di blasfemìa sono stati progressivamente aboliti, ridotti prima a “offese del sentimento religioso” e poi depenalizzati. Frutto della laicità? Dipende da come la si intende. Forse è solo un frutto della secolarizzazione culturale, segno della fine di un monopolio religioso. Anzi, una vera laicità, ipotizza Gaetano Lettieri, per tutelare giuridicamente ogni minoranza religiosa suggerirebbe di reintrodurre la blasfemia, non come ‘crimine’ ma come ‘nozione’… Molto maimonideo!
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI