Nella e suor Benedetta,
il segno del coraggio
Anteposero la salvezza di altre vite umane a ogni altra considerazione. Misero a rischio la propria incolumità e riuscirono nel loro obiettivo. Per questo sono state nominate “Giuste tra le nazioni” e questa mattina, nella sinagoga di Firenze, hanno ottenuto in memoria l’alto riconoscimento del Memoriale della Shoah di Gerusalemme, lo Yad Vashem, per chi nei mesi bui scelse coraggio e impegno.
Suor Benedetta Pompignoli e la professoressa Nella Bichi vanno ad arricchire il contingente dei “Giusti” toscani di nascita o legati alla Toscana: 123 in tutto, con il loro inserimento. A beneficiare di questa prova di altruismo, nel pieno delle persecuzioni antiebraiche, furono Miranda Servi Cividalli e sua madre Pia Ajò Servi.
“È un momento importante della mia vita e io sono nata e vivo grazie a suor Benedetta e a Nella Bichi, due donne eccezionali, speciali che, a rischio della propria vita hanno permesso alla mia mamma di vivere e poi di scegliere di farmi nascere. Madri della mia mamma e mie madri per il loro essere se stesse sempre anche nei momenti più bui, madri per quanto mi hanno regalato e per quanto continuo a scoprire” ha sottolineato Sara Cividalli, ex presidente della Comunità ebraica fiorentina e attuale Consigliere UCEI, nel suo intervento in sinagoga. Una storia di salvezza, ma anche ferite che hanno fatto fatica a rimarginarsi. Poche ore dopo la Liberazione Miranda scopre infatti che la madre è mancata, all’ospedale di Santa Maria Nuova dove un eccesso di calmanti per lenire l’ansia di un possibile arresto le è stato fatale. E che stessa sorte è toccata al padre, scomparso nel maggio precedente. Una drammatica ripartenza. Ma la vita comunque trionfa, anche nel segno lasciato da suor Benedetta e dalla professoressa Bichi nei mesi precedenti. È il novembre del ’43 quando la religiosa accoglie madre e figlia in un convento francescano in via de’Serragli. In un momento di particolare pericolo lo lasciano per andare a casa Bichi, in San Jacopino. Una perquisizione, svolta quando sono entrambe fuori, impone però una nuova fuga. La meta è ancora il convento.
Ad intervenire, assieme a Cividalli, la presidente della Comunità ebraica fiorentina Daniela Misul, il sindaco Dario Nardella, il Consigliere dell’ambasciata israeliana Ariel Bercovich, il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani, Gigliola Pompignoli e Raffaele Favilli a nome delle famiglie delle salvatrici, il sindaco di Mirandola Valerio Roccalbegni.
Il contesto storico delle vicende raccontate è stato illustrato da Lia Tagliacozzo, nipote delle salvate.
In sala, tra gli altri, il viceprefetto Annalisa Oliva, il console americano Benjamin Wohlauer, la consigliera regionale Titta Meucci, la consigliera comunale Sara Funaro, il vicario della diocesi Andrea Bellandi.
(Foto di Milka Caro)
In ricordo di due donne eccezionali
Grazie a tutte e a tutti di essere qui, alle autorità, alle ragazze e ai ragazzi delle scuole, a chi ha conosciuto la mia mamma direttamente e a chi l’ha conosciuta attraverso di me, ai parenti di chi l’ha salvata.
È un momento importante della mia vita e io sono nata e vivo grazie a suor Benedetta e a Nella Bichi, due donne eccezionali, speciali che, a rischio della propria vita hanno permesso alla mia mamma di vivere e poi di scegliere di farmi nascere. Madri della mia mamma e mie madri per il loro essere se stesse sempre anche nei momenti più bui, madri per quanto mi hanno regalato e per quanto continuo a scoprire.
Io non so, o meglio, non sapevo nulla della storia della mia mamma.
Diceva: per un morto si piange, per due morti si piange, per tre morti si piange, poi c’è il silenzio. E lei è stata zitta ed io, con il mio sguardo di figlia, non l’ho interrogata, sono stata complice del suo silenzio. Desiderava che le chiedessi? Non so, a volte non sappiamo cosa realmente desideriamo. Di lei sapevo pochissimo del periodo della guerra, qualche ricordo bello di quando insegnava alla scuola ebraica dopo che lei con tanti altri docenti ed alle alunne agli alunni era stata cacciata da quella pubblica, raccontava gli scherzi che le facevano, le birbonate.
Non sapevo, fino a che Marta Baiardi, che ringrazio con un affetto particolare, non ha raccontato la storia della mia mamma, storia di cui era venuta a conoscenza scartabellando negli archivi della Comunità, una testimonianza della fine d’agosto del ’44, scritta dalla mia mamma subito dopo la liberazione di Firenze. Una storia dura, difficile, scarna, scritta senza smancerie e pianti. La storia dell’angoscia, del nascondersi, l’aiuto dell’amica di sempre Nella Bichi, la fuga dalla sua casa per la paura di essere stata riconosciuta, poi l’accoglienza dell’abbraccio di suor Benedetta, la protezione per lei e la sua mamma, la mia nonna Pia. Desidero leggere un pezzo di quello che ha scritto la mia mamma, non ci sono parole migliori.
“È troppo intima la tragedia di cui fummo protagoniste perché possa descriverla, basti accennare a questo: sono stata rinchiusa quindici giorni con una malata che perdeva sempre più il controllo su se stessa, che nella malattia rievocava continuamente le frasi più ossessionanti della persecuzione, che aveva l’incubo che fossero danneggiati coloro che ci avevano fatto del bene, che gridava che non avrebbe più rivisto il figlio. Non fu possibile far venire un medico specialista, non era prudente ricoverarla in una casa di cura. La curai con iniezioni calmanti e ricostituenti, finché il 29 luglio venne il bando di evacuare la zona dove noi abitavamo. Nessuno poteva accogliermi con mia madre in simili condizioni e con la prospettiva dello stato di emergenza. La mattina del 30 alle 12 scadeva il termine di evacuazione ed io alle 10 non sapevo cosa decidere. Non mi vergogno di scrivere che pensai di ricorrere al Veronal per tutte e due. Dalle 6 del mattino la mia amica Rina Davitti correva per Firenze per cercare un mezzo di trasporto, dato che la Misericordia aveva altri impegni. Finalmente venne l’aiuto: arrivò il dottor Rochat, mandato dalla signora Silvestri, che mi fece un certificato, e la Maria Paoli mi portò il barroccino con cui stava sgomberando: poco dopo la mamma era ricoverata a Santa Maria Nuova e io trovavo ospitalità presso l’avvocato Cardoso. Purtroppo in questo ospedale la mia cara ammalata non ha avuto le cure necessarie e, mentre cercavo invano di ricoverarla altrove, il 12 agosto spirava, intossicata dalle iniezioni calmanti che le venivano continuamente somministrate. Trattenuta in casa dalla guerriglia dei franchi tiratori, ho saputo la triste notizia il 14 in malo modo”.
Un’amara liberazione, zie, zii, cugine e cugini portati via, il padre morto di tifo. Restata sola con il fratello che pochi giorni dopo è arrivato da Roma. Eppure la vita è ricominciata, la mia mamma si è sposata e, dopo un po’ sono nata.
Sono cresciuta nel silenzio, silenzio del quale, ora, mi sento corresponsabile.
Donne stupende hanno salvato la mia mamma, di suor Benedetta ho appreso dai ricordi delle consorelle più anziane e che mi ha riferito suor Daniela, l’attuale madre superiora che ringrazio. Una donna, se mi è concesso dirlo, libera nel pensiero e nell’azione, fuori dall’ordine, capace di decisioni autonome, di prendersene la responsabilità, e anche allegra e pronta al riso. Una donna con occhi penetranti e allo stesso tempo gioiosi, una donna che era madre, non solo per il titolo che le apparteneva.
E Nella Bichi? La signorina Bichi, come sempre l’ho chiamata, la professoressa Bichi, storica insegnante dell’allora ginnasio Machiavelli, lei che fino a che è vissuta è stata presente nella mia vita, lei che è stata sempre accanto alla mamma con la sua pazienza rude e priva di smancerie. Alla signorina Bichi tra l’altro devo l’unica immagine, sensazione, che ho della mia nonna Pia, una volta mi disse “la tua nonna era dolce e buona e ti avrebbe voluto tanto bene”. Molto mi ha insegnato, oltre a risentirmi il greco, il suo sguardo era sempre attento a chi incontrava, anche ai lavavetri che un tempo stavano ai semafori fiorentini.
La signorina Bichi amava gli animali, mi piace pensare che la farebbe sorridere conoscere la strada che ci ha portato qui oggi. Tre anni fa è arrivato da me un cane maschio, adulto, scelta che non avrei mai fatto. Quel cane, Tito, è stato poi in vacanza, per due settimane, da Isabella e Jacopo Treves, andava al lavoro con loro e con la loro cana Vega, Raffaele Favilli, un loro collega chiese se avevano preso un altro cane, “no” rispose Jacopo, dando una risposta un po’ assurda “lui abita in Via Bovio”. Raffaele allora ricordò che da piccolo andava spesso con la Nella, proprio in Via Bovio a trovare una signora ebrea. La mia mamma. Un invito a cena mi ha permesso di conoscere Raffaele di parlare di quell’affetto che avevamo in comune e mi ha fatto nascere il desiderio di fare la domanda di riconoscimento di Giusto tra le Nazioni per chi aveva salvato la mia mamma. E quindi eccoci qui oggi perché le cose non accadono mai per caso e voi non siete qui per caso.
Questa cerimonia è per onorare queste due Giuste, non deve essere una commemorazione storica, è fatta per voi ragazze e ragazzi.
Imparatene che non vedere, non guardare è una scelta, vuol dir colludere, appoggiare. Non permettete a nessuno di chiudervi gli occhi, siate pronte e pronti a disobbedire, non agite per il vostro tornaconto personale a scapito di altre o altri. È facile vedere il rischio nel passato, nell’oggi e nel futuro non lo è altrettanto. Fate attenzione, guardate, vedete e non restate indifferenti. Come ha detto l’assessora Sara Funaro a Palazzo Vecchio al convegno ‘1938-2018, ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali ” L’indifferenza è peggio della violenza, dalla violenza ci si può difendere, dall’indifferenza no”. Ma noi proviamo a scalzarla quell’indifferenza.
Desidero che un altro insegnamento vi raggiunga. Il silenzio a cui la mia mamma mi ha condannato, a cui mi sono condannata non chiedendo, è atroce. Oggi, per la prima volta, ho parlato di cose di cui non ho mai nemmeno accennato, della malattia della mia nonna. Un peso enorme da quando, circa dieci anni fa, ho letto la testimonianza trovata da Marta. Non permettete al segreto, al di nascosto di acchiapparvi, Hannah Arendt ha detto che ciò che non è nominato è condannato a ripetersi all’infinito. Se qualcosa o qualcuno vi fa del male, non tacete, non cercate di mettere sotto silenzio quello che accade. Per prima cosa nominatelo a voi stessi, a voi stesse, è il primo passo e poi cercate una persona autorevole con cui parlarne.
Noi ebrei diciamo di chi non c’è più: che il suo ricordo sia di benedizione. Se non starete in silenzio, se non vi volterete vedendo la sofferenza vostra ed altrui il ricordo di Nella Bichi e di suor Benedetta sarà una benedizione.
Sara Cividalli, Consigliere UCEI
(26 novembre 2018)