L’Italia e il ’38
Gli ottanta anni dall’adozione aperta del razzismo antisemita da parte del regime fascista hanno indubbiamente segnato una svolta. L’interesse e la sensibilità pressoché generali, la mobilitazione dei mass media sull’argomento sembrano rivelare, finalmente, una prese di coscienza collettiva, ciò che stranamente non era avvenuto per i precedenti anniversari “rotondi”: i cinquanta anni, i settanta anni. Il cambiamento è stato probabilmente determinato dalla trasformazione del clima sociale e politico, e non solo a livello italiano. Da un lato l’allontanarsi degli eventi di allora ha permesso un coinvolgimento meno diretto nelle situazioni e ha consentito una prospettiva di maggiore profondità storica indispensabile per una adeguata ricostruzione; dall’altro, però, l’emergere drammatico ai nostri giorni di problemi pur molto diversi come quello delle migrazioni di massa e delle connesse immigrazioni con le relative inquietanti esplosioni di un nuovo razzismo ha accentuato la sensibilità collettiva su questo tema, molto italiano però in fondo poco noto alla massa degli italiani.
Così, spinti dal costume culturale sempre più diffuso di “celebrare” gli anniversari e soprattutto da una reale esigenza di scavare sino in fondo a un argomento assai studiato eppure mai chiarito nei suoi diversi aspetti, ma coinvolti anche da un reale senso di responsabilità etica e politica (certo non personale), i più importanti enti promotori di iniziative sul Novecento – in una sorta di apprezzabile teshuvah collettiva – hanno costruito una serie nutrita di approfondimenti di grande spessore e, credo, di effettiva utilità pubblica. A Torino, almeno, questo è chiaramente percepibile, e molte sono le manifestazioni di notevole rilievo dedicate all’argomento. Sono in pieno svolgimento tre mostre di grande significato e di approccio assai differenziato, frutto comune (e ciò è molto rilevante dal punto di vista culturale e politico) della collaborazione tra Università, Accademia delle Scienze, Polo del ‘900, Fondazione San Paolo e Comunità Ebraica torinese.
Al Rettorato è visitabile “Scienza e vergogna. L’Università di Torino e le leggi razziali”, un percorso critico dettagliato e documentato attraverso l’adeguamento pressoché totale del mondo accademico alle direttive antisemite dettate dal potere fascista. Certo, l’esecuzione dei dispositivi di legge e delle applicazioni procedurali conseguenti era fuori discussione nel clima pesante del regime nella sua massima efficienza propagandistica e repressiva; ma nella traduzione pratica delle procedure, nell’attuarsi dei rapporti interpersonali sembra essersi realizzato all’interno del mondo universitario torinese un surplus di gelo, di solerte messa in opera delle regole, in alcuni casi un’aggiunta di cinismo pronto ad approfittare delle disgrazie dei colleghi: nel quadro del corpo docente, davvero poche sono state le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei professori ebrei sollevati dal servizio.
Lo stesso clima di indifferente adeguamento alle regole e di supina accettazione del sopruso (certo figlio del regime e di una pluridecennale abitudine all’obbedienza silenziosa) si respira di fronte ai pannelli della mostra “Le case e le cose”, dedicata – per la cura di Fabio Levi – all’E.GE.L.I. (Ente Gestione Liquidazione Immobiliare), la struttura creata dal fascismo per sequestrare, talvolta confiscare e amministrare i beni sottratti agli ebrei italiani. In questo caso è la forza materiale delle proprietà sottratte ex lege, degli oggetti requisiti (“le case e le cose”, appunto) a rivelare con la forza dei documenti l’arbitrarietà assoluta del sopruso commesso dallo Stato nei confronti di suoi cittadini nel momento stesso in cui essi cessavano per sua volontà di esserlo. Ad emergere qui è comunque – come ben rilevava Elena Loewenthal su “La Stampa” – la distruzione, con la forza del potere autoritario, della dimensione privata, del bene individuale frutto del lavoro e figlio di storie famigliari: una via materiale per distruggere l’individuo attraverso la requisizione dall’alto di ciò che possiede, i luoghi e le cose in cui ciascuno oggettivizza il proprio essere.
Al Polo del ‘900 una installazione multimediale conduce il visitatore in un percorso negli anni delle leggi razziali: un itinerario ragionato che vuole indurre a pensare, a capire e a porsi domande, costruito per le scuole ma prezioso per chiunque voglia comprendere come è avvenuto in Italia l’obbrobrio del razzismo/antisemitismo di Stato e le conseguenze a cui ha portato: ecco dunque il “muro di carta” costituito dalle migliaia di leggi, circolari, regolamenti, divieti su cui si basava l’espulsione degli ebrei dalla società italiana; ecco il passaggio del 1943, che segna la sconfitta del fascismo, la fine della fiducia degli italiani nella dittatura e la fine della loro indifferenza nei confronti degli ebrei, nei mesi tragici in cui i nazisti occupanti e i repubblichini danno loro la caccia; ecco il periodo successivo al 1945, quando solo poche luci si accendono, pochi scritti (“Se questo è un uomo”, primo tra gli altri), pochi processi segnalano la tragedia della Shoah a una massa che dopo la guerra non vuole ascoltare storie di stermini collettivi; ecco il mondo dopo il crollo del Muro di Berlino, in cui l’apparente fine delle barriere spinge a una ricostruzione storica finalmente adeguata e progressivamente consapevole di quell’abisso.
Accanto alle tre esposizioni, un convegno di alto livello organizzato nella Sala dei Mappamondi dell’Accademia delle Scienze e seguito da un pubblico folto e attento ha ricostruito col contributo di storici, giuristi, scienziati la teorizzazione, il contenuto, le aberrazioni, le conseguenze, le interpretazioni storiografiche del razzismo fascista.
Certo l’obiettivo dell’analisi, della diffusione di conoscenza e di coscienza – almeno a Torino e per coloro che hanno seguito le iniziative e continuano a farsi coinvolgere da esse – è stato raggiunto. Ed è un traguardo di grande importanza. Resta un’incertezza su un altro piano. Saremo capaci di andare “oltre” la lezione di Storia? In altri termini, queste straordinarie iniziative e altre consimili che si sono svolte in varie città italiane serviranno a creare una consapevolezza che non si accontenti di essere bagaglio accantonato nel deposito della memoria del passato, ma sappia divenire moneta di una coscienza democratica spendibile nel futuro, cioè autentica capacità di non ricadere nell’assuefazione quotidiana al pregiudizio di tutti giorni pronto a trasformarsi in ideologia della superiorità razziale? Perché è così che sono andate le cose, nell’Italia di allora: il razzismo antisemita ancora alla metà degli anni Trenta sembrava impossibile da noi; poi un sottile veleno insinuato dall’alto ha cominciato a diffondersi sull’onda della propaganda, e solo pochi anni dopo l’antisemitismo era moneta corrente, l’indifferenza un’abitudine.
David Sorani
(27 novembre 2018)