empatia…
La Torà racconta che Yosef, il figlio di Giacobbe finito schiavo in Egitto, è fatto oggetto di insistenti tentativi di approccio da parte della moglie del suo padrone, invaghita dalla bellezza del giovane. Avendo resistito alle pressanti lusinghe della donna, questa cerca di vendicarsi, accusando Yosef di un tentativo di violenza; per accreditare la sua versione dei fatti, convoca i domestici ai quali mostra la veste di Yosef e si rivolge loro come a persone di pari grado, che avrebbero dovuto sentirsi egualmente coinvolti nella stessa vicenda: “Guardate, (mio marito) ha condotto in casa un ebreo per prendersi gioco di noi” (Genesi 39,14). Nechamà Leibovitz (fu una straordinaria figura femminile come maestra di Torah) fa notare in un suo commento il significato demagogico di questo plurale – “prendersi gioco di noi” – usato dalla matrona egiziana nel subdolo intento di dimostrare che il presunto affronto, di cui diceva di essere stata vittima, colpisse allo stesso modo anche la cerchia dei servitori: “Forse che poteva sussistere in Egitto, nel paese che la Torà definisce come – casa di schiavi – una dimensione sociale che riunisse sullo stesso piano, in un consolante ‘noi’, i padroni insieme ai servi? Certamente no, forse neppure l’aria che respiravano era sentita come qualcosa in comune, tra i padroni in cima alla scala sociale e i servi come ultimi, poco più di animali che annaspavano per sopravvivere. Il coinvolgimento che usa la matrona è solo un espediente di demagogia, che li fa sentire, per un breve istante, sullo stesso piano, senza dar loro alcun reale beneficio, poco dopo lei sarebbe tornata ad essere, come sempre, la padrona che li schiacciava e umiliava”. Sappiamo poi come questa subdola ricerca di consenso verso i miseri sia stata utilizzata in funzione di antisemitismo, e quante volte nella storia sia echeggiato il riferimento sprezzante al “servo ebreo venuto a farsi gioco dei poveri del paese”.
La spiegazione di Nechamà Leibovitz mi suggerisce un’ulteriore riflessione; al posto di questa ipocrita demagogia, di un’attenzione verso i miseri, verso chi sta più in basso sulla scala sociale, che dura un battere di ciglia e corrisponde solo a meschini interessi, il modello di una autentica possibile condivisione tra esponenti di diverso livello ci giunge direttamente dall’Eterno, secondo l’interpretazione che Rashì ci propone dell’espressione – anche qui al plurale ma con ben diverso insegnamento – che definisce la creazione dell’uomo da parte del Signore “Il Signore disse – Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine…” Rashì commenta: “Da questa espressione impariamo l’umiltà che (ci insegna) il Santo, benedetto Egli sia. Si è consultato con gli angeli, anche se non Lo hanno aiutato nell’opera della creazione e malgrado questa espressione (il plurale riferito a D.O) potesse dare spazio ad erronee interpretazioni; il testo della Torà non si è trattenuto dall’insegnarci, (proprio attraverso questo plurale), un buon comportamento e la misura dell’umiltà, per la quale è necessario che chi è più importante si consulti con chi è più piccolo, quasi a ricevere il permesso anche da questi.”
È dal Signore, nella Sua infinita grandezza, che impariamo a distinguere l’interesse equivoco e subdolo verso il misero dall’atteggiamento di autentica modestia e sincera attenzione, che coinvolge e riavvicina chi sta in cima alla scala sociale insieme a coloro che ne occupano gli ultimi scalini.
Giuseppe Momigliano, rabbino
(29 novembre 2018)