Dina
Dina, abbiamo letto nella Parashat VaIshlach il giorno prima che si celebrasse la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ‘era uscita per vedere le donne del paese’ (Bereshit 34,1). Se l’è cercata, insomma, è voluta andare in giro da sola, magari anche in abiti succinti e con un atteggiamento ammiccante e provocatorio. Ginzberg (Le leggende degli ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi 1997, p. 196) riporta anche che Dina si allontanò mentre gli uomini studiavano Torà, a vedere le donne che danzavano ed erano state assoldate proprio per adescarla: ingenua e frivola dunque, opinione supportata anche dal midrash, secondo il quale la responsabilità di quanto accadde a Dina è tutta maschile, di uomini che non si sono presi cura di lei o che non l’hanno data in moglie all’uomo che aveva diritto ad avanzare pretese su di lei, Esav (Bereshit Rabba 73,9 e 80,4) – di qui la punizione che venisse presa a forza da uno straniero (lo straniero, cattivo). I nostri Maestri non sono teneri con Dina, giudicata colpevole, al pari di Lea, di volere farsi guardare (vedi Sanhedrin 4b).
Fu infatti presa con la violenza da Scechem, che poi la chiese in sposa: non aveva saputo resistere alla tentazione poverino, e poi ‘si affezionò a lei’, le voleva bene (Bereshit 34,3). Il testo usa in realtà il verbo דבק dabak, aderire come colla, che è uno strano concetto del voler bene, insieme a נפשו nafso che potrebbe essere tradotto come ‘furiosamente’. Una donna presa per capriccio di un uomo, come un oggetto.
Il padre dello stupratore (termine forte, forse politicamente scorretto per un principe che vuole mostrarsi contrito) si presentò da Yaakov, padre di Dina, intercedendo per il figlio, del quale ricordò essersi ‘invaghito’ della ragazza (Bereshit 34, 8) – ma viene usato il verbo חשק hasak, desiderare con urgenza, e di nuovo נפשו nafso, furiosamente. Insomma, la voleva, l’ha presa illecitamente, ma continuava a volerla e chiedeva quindi una legittimazione del suo atto.
In cambio delle nozze con Dina, furono così offerti una dote vantaggiosa (il matrimonio riparatore) ed il possesso della terra di Caanan, chiedendo però di contro anche legami matrimoniali reciproci tra i due popoli – l’integrazione, si potrebbe malignamente pensare anche l’assimilazione.
I figli di Yaakov, fratelli della ragazza, si adirarono ed ingannarono il principe straniero, dichiarando di acconsentire a divenire un unico popolo in cambio della circoncisione di tutti gli uomini chivvei di Caanan. Gli stranieri acconsentirono perché Scechem ‘amava’ (Bereshit 34, 19; ma a ben guardare leggiamo che desiderava, voleva davvero intensamente, חפץ hefez) la fanciulla. Così si circoncisero e dopo tre giorni, approfittando della loro debolezza fisica, i fratelli di Dina, Shimeon e Levi uccisero tutti gli uomini della città, la razziarono e depredarono gli abitati vicini, portando via donne e bambini come schiavi. Tredicenni, dice un midrash, i due decisero di agire senza consultarsi (Bereshit Rabba 80, 9).
Yaakov fu duro con i figli, accusandoli di averlo danneggiato e messo in pericolo di fronte a tutti i cananei (Bereshit Rabba 80, 10) – non di aver vendicato il torto subito da Dina con una violenza eccessiva da giustizieri, invece forse di rivolgersi ad un tribunale che giudicasse il violentatore di Dina, la quale nel nome reca proprio il concetto di giudizio. Secondo un midrash, Yaakov passò tutto il resto della vita maledicendo la collera che aveva fatto agire i figli contro gli abitanti di Shechem (Bereshit, 49,7).
Shimon e Levi risposero al padre che diversamente la sorella sarebbe stata considerata una prostituta – il suo onore era violato, non contavno i suoi sentimenti, un sostegno affettuoso, ascoltarne la voce ed il dolore: solo un regolamento di conti tra uomini, anzi tra maschi, per il possesso dell’onore della donna.
Fine della storia di Dina.
Il 25 novembre, in un piovoso inizio di settimana subito dopo aver letto di lei, migliaia di donne hanno manifestato in diverse città contro il ddl Pillon (che farebbe arretrare di decenni il diritto in difesa delle donne e soprattutto di madri e minori in caso di separazione dei coniugi), hanno partecipato a conferenze su empowerment femminile e difesa delle cosiddette vittime, hanno allestito e visitato mostre piene di scarpe rosse, panchine rosse, segni rossi, preso parte a proiezioni di film e spettacoli teatrali. I media ne hanno parlato, riparlato, straparlato.
E come non trovare commoventi i lanci di palloncini rossi, il calcio sceso in campo con fasce rosse, il rugby con le magliette che sciorinavano i dati statistici delle donne aggredite ed uccise? Come non provare un moto di empatia di fronte all’hashtag #nonènormalechesianormale?
Le donne, quelle che subiscono violenza, era no invece a casa insieme a Dina, zitte. Nessuno dei vicini di casa ha bussato alla loro porta udendo le urla, loro e dei loro figli, piene di terrore. Nessun loro familiare ha trovato il coraggio di affrontare la realtà e chiedere loro cosa succedesse, se avessero bisogno di aiuto. Gli amici? Spariti da tempo, nel progressivo vuoto fatto dai maltrattanti, come si dice in gergo tecnico.
Passato il 25 novembre, le donne che subiscono violenza si ritrovano per altri 364 giorni l’anno senza che quasi nessuno si interessi davvero a loro. Ma a ben vedere quasi nessuno si interessa davvero a loro neppure il 25 novembre, al massimo alle loro storie, al dramma della loro fine tragica che interrompe l’esistenza di molte. E’ faticoso occuparsi di loro, richiede tempo, energia, capacità di non abbattersi e di inventare ogni volta nuove strategie di reazione.
E se, e quando trovano voce e con essa il coraggio di ribellarsi, la forza della disperazione perché così non si può andare avanti, dopo sarà a tratti anche peggio. Burocratiche indagini, avvocatesche perizie, un quotidiano stillicidio di insicurezza e di dipendenza – non delle donne nei confronti dei loro mariti, fidanzati, ex fidanzati violenti di cui non riescono a liberarsi e da cui spesso subiscono ricatti psicologici ed economici, ma viceversa degli uomini verso donne di cui non accettano il rendersi indipendenti dal loro giudizio e dal loro controllo.
Davvero lascia qualcosa la commemorazione del 25 novembre, a parte la sensazione di essersi lavati la coscienza? I nostri Maestri sono stati molto duri con Dina, era uscita da sola, non le viene lasciato diritto né di parola né di difesa. Forse possiamo capirli e perdonarli, contestualizzando la vicenda ed i loro giudizi in epoche molto distanti culturalmente prima ancora che nel tempo. Li perdono – anche se mi resta qualche dubbio, perché alcune donne hanno avuto voce e capacità di azione, tra le altre Tamar e Debora.
Ma non perdono i libri della scuola primaria che continuano a veicolare messaggi stereotipati in cui i padri lavorano otto ore al giorno e le madri stanno a casa a cucinare torte (le congiunzioni non sono contemplate, così come l’idea che le madri possano lavorare anche più di otto ore e cucinare torte ed accudire bambini e stirare…).
Non perdono le pubblicità sessiste di profumi ed automobili, ma anche di merendine e prodotti per la pulizia della casa.
Non perdono l’industria del divertimento che ha sessualizzato i giocattoli, non più i mattoncini Lego universali ma quelli per bambini e quelli per bambine.
Non perdono un sistema scolastico in cui a nove anni si devono fare elaborate ricerche di gruppo sui babilonesi ma si fa finta di ignorare ragazzini che chiedono cosa sia il porno guardato dai compagni sui cellulari, con buona pace di un’autonomia dei bambini che sia consapevole ed educativa e non il semplice lasciargli in mano un telefono, e soprattutto dell’introduzione dell’educazione sessuale a scuola.
Non perdono la retorica sul 25 novembre, senza che nelle scuola una sola parola sia spesa in quello ed in tutti gli altri giorni, per scardinare i pregiudizi di genere. Talvolta veicolati anche da alcune donne, che in questo sistema sono cresciute, e che hanno un’enorme responsabilità nell’educazione dei figli (in presenza di padri spesso assenti) e dei propri studenti.
Vorrei poter dare voce a Dina.
Sara Valentina Di Palma
(29 novembre 2018)