Il vuoto e il pieno
In Francia si susseguono le manifestazioni contro la politica del presidente Macron, giovane e inedita promessa del panorama nazionale anzitempo appassita. Al di là del merito delle singole espressioni di dissenso, e ancora di più del ricorso alla violenza di piazza, laddove è facile immaginare che alle sincere proteste si accompagnino le provocazioni, le strumentalizzazioni e le manipolazioni, rimane il fatto che un diffuso malcontento sta attraversando l’Europa intera. La crisi delle istituzioni comuni dell’Unione si inserisce all’interno di questo processo, essendone più effetto che non causa. Ovvero, dal momento che il peso di una mancata federazione politica si è sovrapposta alla realizzazione di una moneta unica, le conseguenze dei mutamenti geopolitici – e tra questi soprattutto quelli di ordine sociale ed economico – si sono riflesse su tutto il Continente europeo senza gli ammortizzatori che queste avrebbero invece richiesto. Il colpo di maglio è stato avvertito soprattutto nelle fasce intermedie e mediane delle nostre società, quel ceto medio – per l’appunto – che misura non solo il decremento della sua capacità economica ma anche la perdita di status, il timore per i tempi a venire, in buona sostanza un altrimenti inaspettato scollamento con la società circostante. La protesta generalizzata contro le élite incapaci di fare fronte ai cambiamenti, guidandoli e gestendoli a beneficio comune, è divenuta allora il tratto prevalente di un disagio diffuso, in parte fondato su bisogni reali ed in parte “percepito”, e quindi elaborato, come senso al medesimo tempo di espropriazione (per i diritti persi o non riconosciuti) e di frustrazione (per un tempo futuro che non costituisce più una prospettiva di speranza ma solo di ansia). Tutto il dibattito sul cosiddetto “populismo”, sul “sovranismo”, sull’”identitarismo” ruota intorno a questa condizione generalizzata. Così come il declino, pressoché definitivo, di ciò che era la sinistra industrialista, sia liberalsocialista che socialdemocratica (quella comunista da tempo andava estinguendosi, ossia ben prima del 1989, con la fine delle residue e velleitarie passioni rivoluzionarie almeno un decennio prima). A questi ultimi soggetti, che in loro esistenza avevano svolto, all’interno di un sistema istituzionale, politico e di valori improntato agli ordinamenti costituzionali postbellici, un ruolo di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, attenuando le disparità sociali e di fatto agevolando l’irrobustimento del ceto medio, è seguito il vuoto di rappresentanza. Poiché in politica nulla rimane mai abbandonato a se stesso per lungo tempo, la funzione di raccogliere e catalizzare il disagio montante e la protesta di quanti si sono sentiti sempre più spesso esclusi dai dividenti della globalizzazione è stata assunta da nuovi (ma anche vecchi, pensado anche solo al Front National di Marine Le Pen) attori politici, ovvero gruppi, movimenti e partiti che investendosi di un ruolo sociale diffuso, hanno enfatizzato il richiamo alla contrapposizione popolare contro le classi dirigenti denunciate come defezioniste (il nocciolo populista riposa propriamente in questa dinamica), la rivalorizzazione dei confini nazionali come gli ambiti della decisione sovrana (che è una cosa diversa dal vecchio nazionalismo), il rifiuto dei processi immigratori e dei loro effetti (intesi come fattore di permanente destabilizzazione). Ricondurre questi processi in corso ad un presunto “ritorno del fascismo”, quasi che la storia dovesse pedissequamente ripetersi, implica il non volere cogliere e riconoscere gli aspetti di differenza (così come anche il nuovo modo di ripresentarsi di quelli che invece manifestano elementi di continuità con quel passato) dell’oggi rispetto allo ieri. Eroso il capitale elettorale e politico delle sinistre istituzionali, ciò a cui stiamo ora assistendo è l’assalto a quello dei partiti tradizionalmente centristi e di centro-destra. Plausibilmente, è quanto avverrà anche in Germania di qui a non molto, dove la Csu fatica a stare dietro all’evoluzione dell’elettorato (nel mentre la Spd pare essersi inabissata). La mossa di Macron, presentatosi ai francesi, l’anno scorso, come l’uomo che avrebbe meglio rappresentato, al medesimo tempo, il politico capace di acquietare le ansie dei molti e fermare l’avanza della destra populista, si sta rivelando in tutta la sua fallace inconsistenza. Rispetto al passato, alle crisi degli anni Venti del secolo trascorso, c’è infatti un tema che ritorna in tutta la sua dirompenza: la capacità di attrarre consensi dei movimenti radicali è sempre inversamente proporzionale alla forza della democrazia. Laddove quest’ultima si inaridisce o si indebolisce, si aprono varchi altrimenti impensabili per i primi. Un po’ – ed è questa l’unica analogia pienamente legittima – come avvenne con il declino del liberalismo classico dopo la Grande guerra.
Claudio Vercelli
(2 dicembre 2018)