Il Premio Interfedi
I quotidiani dei giorni scorsi riportavano con un certo risalto la notizia che “Wildlife” di Paul Dano (regista, attore e sceneggiatore) ha vinto il premio per il miglior film del 36° Torino Film Festival. Decisamente meno nota è l’esistenza, all’interno della rassegna torinese, del “Premio Interfedi”, riconoscimento assegnato a un’opera che si distingua per l’attenzione portata alla cultura della tolleranza e del rispetto, alla condizione di disagio e ingiustizia, alle minoranze di vario genere, alla laicità. Quando, sei anni fa, il Consiglio allora in carica della Comunità Ebraica di Torino decise insieme al Concistoro Valdese e al Comitato Interfedi del Comune di Torino di dare vita a un inedito premio cinematografico nell’ambito dell’importante concorso locale, l’iniziativa rappresentava una scommessa e una sfida: lanciare due minoranze religiose insieme a una istituzione legata al dialogo inter-religioso in un ambito così particolare e da “addetti ai lavori” come quello dei concorsi cinematografici era un’operazione audace, poco consona ai canoni specialistici più consolidati. Si è rivelata invece una scelta vincente, perché proprio lo sguardo dei non esperti o dei semplici amatori ha permesso di porre l’accento su dimensioni non sempre doverosamente sottolineate. In particolare, il messaggio sociale, l’aspetto etico, il significato politico sono i fattori portanti di questo premio, anche al di là del valore puramente estetico delle opere partecipanti.
Tre giurati (uno per la comunità valdese, uno per quella ebraica, uno per il Comitato Interfedi) scelgono il film vincitore in una rosa di dieci pellicole legate alle tematiche di fondo del concorso. Libero dai troppo vincolanti impegni dell’insegnamento, ho deciso quest’anno di entrare nella giuria in rappresentanza della Comunità Ebraica di Torino. E poiché dieci film in una settimana non sono pochi, il 24 novembre sera dopo Shabbat ho iniziato un vorticoso tourbillon di spostamenti rapidi da un cinema all’altro e da una pellicola all’altra che mi ha accompagnato sino alla sera di giovedì 29, giorno stabilito per la scelta comune del lavoro migliore. E’ stata un’esperienza assai positiva, capace di aprirmi gli occhi su realtà che non conoscevo: un tuffo in dimensioni e situazioni diversissime, con alcuni denominatori comuni, l’emarginazione – il disagio – la repressione – lo sfruttamento – la difficoltà dei rapporti sociali/familiari.
Spigolando tra i film di maggiore spessore, ricordo “Land” di Babak Jalali (cooproduzione italiana, francese, olandese e messicana), ambientato in una riserva indiana dove la povertà, l’alcoolismo, la ghettizzazione fanno da padroni, sino a quando la morte nella guerra dell’Afghanistan di un nativo americano di quelle terre desolate non riaccende nella sua famiglia l’aspirazione a un legittimo riconoscimento da parte dello Stato, provocando un contenzioso che rivela un forte senso di identità nazionale ed etnica. E poi “Temporada” del brasiliano André Novais de Oliveira, dove la provinciale Juliana si trasferisce per lavoro nel grande centro di Contagem del Minas Gerais, aspettando invano di essere raggiunta dal marito e riorganizzando con coraggio e dignità la sua vita di impiegata nella Sanità pubblica: desolazione e povertà delle periferie urbane, ma anche amicizia, umanità, speranza di riscatto. Molto bello “Angelo” dell’austriaco Markus Schleinzer, un film austero dedicato alla storia vera di un africano venduto come schiavo in Francia nel Settecento ed educato dalla contessa sua illuminata padrona secondo i migliori modelli pedagogici dell’epoca, tanto da farne un musicista virtuoso e un elegante conversatore, un “moro di corte” modello preso in prestito persino dall’Imperatore d’Austria per aver qualcuno su cui riversare le sue amare considerazioni filosofiche: insomma, la prova vivente del “progresso” e dell’”umanità” dell’Illuminismo, e nello stesso tempo della sua perdurante vocazione al condizionamento e all’addomesticamento del “diverso” secondo canoni europei e dunque perfetti. Due film francesi hanno gettato il pubblico nel vortice delle difficoltà sociali e familiari legate alle problematiche del lavoro e della disoccupazione incombente: “Marche ou crève” di Margot Bonhomme è centrato sull’amore eppure sul contrasto che lega due sorelle, Manon disabile e alle prese con terribili difficoltà nella vita di tutti i giorni, Elisa sana e nel pieno della vitalità giovanile e comunque pronta a sacrificarsi per aiutare la sorella insieme al padre, mentre la madre – convinta che solo un ricovero di Manon possa salvare la ragazza e il gruppo – ha abbandonato la famiglia; “Nos batalilles” di Guillaume Senez (produzione franco-belga a cui è stato infine assegnato il Premio Interfedi) “tratta con delicatezza il percorso di un padre sindacalista che – cito la motivazione del premio – costretto dall’abbandono della moglie ad assumersi responsabilità verso i figli, impara a rispettare le esigenze di coloro che gli sono vicino, non ponendosi più su un piano egoistico e rimanendo fedele ai propri valori”.
In conclusione, un concentrato di situazioni difficili, di casi umani individuali familiari e collettivi: le problematiche pesanti dei nostri giorni, capaci di sollevare fondamentali questioni etiche che le religioni in quanto punto di riferimento della società devono fare proprie e che le minoranze sovente perseguitate hanno vissuto sulla propria pelle. In questo coacervo di nodi spesso inestricabili il Torino Film Festival nel suo complesso e la piccola rassegna del Premio Interfedi al suo interno indicano una possibile connessione virtuosa tra arte, etica e impegno civile.
David Sorani
(4 dicembre 2018)