RACCONTI La plurale identità di Napoli
Pierpaolo Pinhas Punturello / NAPOLI, VIA CAPPELLA VECCHIA 31 / Salomone Belforte Editore
Per poter leggere ed apprezzare la raffinata complessità identitaria, psicologica e letteraria della voce autoriale di Rav Pierpaolo P. Punturello in questo suo primo libro, credo sia necessario capire come percepire ed abbracciare quello che il poeta John Donne chiamò “il dialogo dell’uno.” O meglio – i nove racconti di questo libro presentano al lettore l’elegante ritratto di un’identità duale, plurale, gradevolmente frammentata, e tuttavia sempre unita, con amore e aplomb, in un tutt’uno. La presenza dei due o dei molti nell’uno è, come concetto a sé stante, un elemento integrante di una tradizione mediterranea alla quale Rav Punturello fa costante riferimento, sia per motivi ideologici che biografici. Nel Trattato Berakhot (61a) del Talmud Babilonese, all’interno di una discussione sui possibili significati del termine “tsela,” comunemente tradotto come “costola,” sostiene Rabbi Yirmiyah ben Elazar che D-o creo Adamo con due facce, una maschile davanti ed una femminile di dietro, che poi separò con la creazione di Eva. Una simile versione dei fatti viene data da Aristofane nel Simposio di Platone, narrando dell’iniziale conformazione duale degli esseri umani, seguita poi dalla decisione di Zeus di tagliarli a metà onde poterli indebolire e renderli dipendenti l’uno dall’altra. Ed ovviamente ricordiamo il Giano bifronte dellla tradizione Romana, dio pagano che guarda, dalla fermezza di un presente immediato, sia al passato che al futuro. La voce autoriale di Rav Punturello è dolcemente duale, gradevolmente plurale, e seppure il lettore a momenti possa esser tentato di semplificarla in un dicotomico aut aut, volendo impoverire questa ricchezza identitaria e ridurla all’uniformità tonale di un io ebraicamente monocromatico, i racconti di “Napoli, Via Cappella Vecchia 31” resistono sempre con vigore e passione a questa violenza interpretativa.
A partire dalla dedica che Rav Punturello scrive a sua moglie Giulia, presentata come “nobildonna ebrea di Napoli,” il libro sonda con chiarezza sia lessicale che di contenuto, la complessità di ciò che significa essere ebrei diasporici, senza mai nascondere paure, errori e momenti di disperazione. Come sempre succede, questo testo letterario acquisisce una gamma di significati e possibili intenzioni allorché viene letto come risposta, a momenti velata ed aggraziata, ma a momenti anche dura e decisa, ad un contesto sociale e religioso. Ad esempio, Rav Punturello parrebbe intento a rispondere alle storiche argomentazioni di un ebraismo laico ed orgoglioso, agli occhi del quale la religiosità, le mitzvot e lo sforzo coraggioso di chi decide di vivere una vita da Giano, rivolta sia al passato che al futuro, sono null’altro che fonte di imbarazzo e rabbia. L’identità complessa di chi vive la propria realtà in modo ebraicamente invasivo e totalizzante, comprendendo anche l’importanza di “[un’]altrettanta cultura del mondo non ebraico,” viene posta in chiaro e doloroso contrasto a chi prova vergogna per la propria specificità culturale e la considera fonte di contrasto e problemi. Torno a ripetere: il libro di Rav Punturello non presenta al lettore facili soluzioni a problemi complessi ed intergenerazionali. Per questa ragione i suoi racconti non additano, non accusano, ma presentano la difficoltà e gli errori con altrettanta cura dei successi e della semplicità – per questo motivo, chi non accetta le scelte di un ebraismo laico e disinteressato alle proprie radici storico-culturali, un particolarismo che il nonno nel secondo racconto, Nissim Modiano, paragona alle lentiggini sul viso della nipotina, viene ugualmente criticato.
“Ma era anche colpa sua: da troppo tempo non parlava veramente con mia madre, da troppo tempo aveva chiuso il suo cuore di fronte a scelte di vita che per lui erano assurde.”
La co-presenza antagonistica di due poli d’attrazione culturale, ebraico e non-ebraico, dà ai diversi personaggi creati da Rav Punturello una profondità psicologica chiara e matura. Rivolgendo la sua attenzione d’autore alle dicotomie di genere e tendenze sessuali del mondo d’oggi, un altro personaggio “bifronte” è quello dell’uomo religioso e timoroso di D-o, che rispetta lo Shabbat e lo vive all’interno della cornice matrimoniale, e che al contempo vive la vita parallela, caratterizzata da “un’inquietudine strana, una forza divoratrice e silenziosa che non gli dava tregua.” Questa forza parallela è un’omosessualità mal vissuta, nascosta al mondo esterno ed alla cerchia benestante e borghese nel quale egli vive con la moglie, e che quindi è fonte perenne e dolorosa di “sensi di colpa” – all’ossessivo bisogno di chi cerca, maldestramente, di “lobotomizzare” il proprio cervello ed interromperne la meccanica ripetizione delle “parole ebreo e gay in una stessa identica frase,” Rav Punturello indirizza un invito alla chiarezza e ad una sincerità che possa dare conforto all’individuo attanagliato da questa dualità straziante.
Concludo questa mia breve recensione del libro di raccconti di Rav Punturello con l’Havdalà, rituale ebraico che segna la conclusione dello Shabbat e l’inizio della settimana feriale, nonché titolo del quinto movimento in questa sinfonia polivocale. La storia narratavi è quella del giorno in cui “il ragazzo” parte da Napoli e va a Roma per passare l’ultimo esame del Tribunale Rabbinico, e suggellare così la propria idoneità alla conversione all’ebraismo. Chiaro rito di passaggio da una fase iniziale della vita del ragazzo, caratterizzata da un’appartenenza culturale e religiosa ereditata, ad un secondo periodo fatto di ortoprassi scelta e voluta, la conversione del personaggio di Rav Punturello è quella che i Romani chiamavano una discordia concors, una combinazione di voci o fattori dissonanti all’interno di una cornice (dis)armonica e polifonica. Questa Havdalà non è, dunque, un’interruzione, ma una rielaborazione dell’aut-aut nei termini e la complessità del paradosso – l’allegoria concepita da Rav Punturello per gettar luce su tal discordia concors —, è l’incontro fra “il Giudice” del Tribunale Rabbinico ed “il Padre.”
“Giudice e Padre si salutarono e nel saluto del Padre c’era anche forte il tono di chi stava dicendo: ‘La famiglia è qui, il ragazzo ha una casa dalla quale proviene, degli affetti, dei fratelli, una storia ed un destino proprio, che oggi non si cancella, perché io sono qui.”
Al contrario di altri che hanno sempre vissuto in modo dicotomico la separazione fra i due (o più) periodi della propria vita, schiacciando le proprie origini, tagliando le proprie radici a forza di abitudini non proprie e comportamenti scimmiottati, il ragazzo ed il padre in questo racconto propongono al lettore una gradevole struttura chiastica rappresentata dalla “giacca grigia ed una cravatta del Padre, che al ragazzo piacevano molto e che erano perfetti per quello Shabbat romano,” e dai “chili di carne casher da congelare, una pizza romana casher che al Padre piaceva molto e due oggetti in argento che servivano a celebrare una separazione,” nella macchina del padre. La realtà che ci propone Rav Punturello con i suoi racconti è complessa, a volte sofferta, ma chiara, elegante, caratterizzata dalla classe di chi sa da dove viene e guarda avanti al futuro, forte delle proprie radici e pronto ad affrontare il futuro con gli strumenti del passato.
Yaakov Mascetti, Università di Bar Ilan