…Chanukkah
Yeshayahu Leibowitz è stato un intellettuale che possiamo tranquillamente definire politicamente scorretto, e che spesso, sostenendo con la forza dell’argomentazione tesi impopolari ha scontentato un po’ tutti. Nel volume “Le feste ebraiche” (Jaca Book) interviene a proposito di Chanukkah, che celebriamo in questi giorni, la festa che ricorda la guerra vittoriosa degli asmonei durante la dominazione ellenistica. Tranne questa ribellione violenta, nessuna altra guerra merita nel calendario ebraico una festa, nemmeno, dopo l’esodo e i quarant’anni nel deserto, la conquista della terra di Canaan da parte di Giosuè.
La differenza, nota Leibowitz, sta nel diverso obiettivo dei due conflitti: la guerra con cui il popolo ebraico guidato da Giosuè occupa Canaan è mossa da valori umani (per esempio l’interesse di un gruppo di persone o di aggregati tribali), come obiettivi umani sono quelli che soggiacciono alle guerre contemporanee dello stato di Israele (che siano o no difensive, da questo punto di vista non fa alcuna differenza). Questi conflitti, continua Leibowitz, non hanno alcun valore dal punto di vista ebraico; sono indifferenti, e per questo non esistono feste ebraiche a celebrarli. Se a volte vengono celebrati, lo sono da punti di vista non ebraici ma, almeno nella maggior parte dei casi e utilizzando una parola moderna, nazionalistici.
La guerra degli asmonei, al contrario, viene ricordata durante una festa del calendario ebraico perché in essa, nei secoli successivi agli eventi, è stata identificata la lotta in osservanza e per l’osservanza della Torah. Questa guerra, sottolinea Leibowitz, piaccia o no è una guerra civile, non una ribellione degli ebrei contro i conquistatori stranieri ma la rivolta violenta e senza esclusione di colpi di una parte del popolo ebraico, custode della Torah, contro gli ebrei ellenizzanti. Chanukkah è, tra tutte le ricorrenze ebraiche, quella indubbiamente più religiosa (ma forse sarebbe meglio dire l’unica effettivamente religiosa) perché la guerra che celebra sgorga da uno slancio generato dalla consapevolezza del dovere verso la Torah da parte di una minoranza che non esita a sacrificare la propria vita. La stessa idea di sacrificio di sé, insiste Leibowitz in numerosi passi del libro, non è ebraica ma greca: una clamorosa conferma del grado di influenza esercitato nei secoli dell’ellenismo dall’incontro degli ebrei con la cultura greca, se è stata in grado di influenzare in profondità perfino la reazione antiellenistica di una parte del popolo ebraico. L’azione estrema dei difensori di Masada, che scelgono il suicidio, può forse essere intesa come un esempio di eroismo, risponde in ogni caso a valori che non hanno nulla di ebraico, ma sono al contrario di chiara derivazione ellenica.
Torniamo alla guerra civile. Non a caso, il conflitto ha inizio quando Mattatia uccide non un oppressore o un governante greco, ma un ebreo che aveva osato offrire un sacrificio alle divinità dell’Olimpo. “Da questo punto di vista”, conclude Leibowitz, “è opportuno che la guerra asmonea sia chiamata guerra santa, poiché coloro che la combatterono lottarono non solo contro gli stranieri greci, ma soprattutto e principalmente contro i loro fratelli ebrei ellenizzanti, che si erano sottratti al giogo della Torah e dei precetti”. Proprio così: guerra santa, almeno secondo Leibowitz, con i cui interventi aspri e acuti è indispensabile, presto o tardi, fare i conti.
Giorgio Berruto
(6 dicembre 2018)