Chanukkah con Woody
“Ci sono un sacco di canzoni sul Natale, ma non c’è niente sulle feste ebraiche che sia popolare. Perché non fai una canzone di Chanukkah, una completa con il suo significato sociale?”.
Lo storico produttore Moses Asch forse non pensava che il suo amico Woody Guthrie l’avrebbe fatto sul serio; di certo non poteva immaginare che qualche anno più tardi Guthrie ne avrebbe composte più di una dozzina.
Per capire come il padre della canzone di protesta americana sia arrivato a calcare le orme dei badchanim, i cantori-aedi della tradizione ashkenazita, bisogna ritessere le fila di una storia che ha radici lontane. Perché, se sono ormai leggenda il suo peregrinare nel polveroso Sud e le sue canzoni sulle sofferenze degli Okies – nomignolo inizialmente spregiativo affibbiato agli emigranti dell’Oklahoma –, fino a pochi anni fa ben poco si sapeva del suo rapporto con la cultura ebraica. Un legame, questo, che nasce alla fine degli anni ’30 del Novecento quando Guthrie si trasferisce a New York e abita per un periodo in quella Mermaid’s Avenue che dà il titolo a uno dei suoi inediti. “Meirmaid Avenue è la via”, scrive Guthrie, “dove l’amaro incontra il dolce”, “dove il pesce affumicato incontra il pretzel” e “le più belle meiedeles / lasciano le impronte dei loro corpi sulla sabbia”.
Immerso in un ambiente in cui si gioca a scacchi per strada e i vecchi litigano in yiddish, Guthrie finisce per innamorarsi di una maydeleh: conosce Marjorie Mazia nel 1940 a uno dei tanti hootenannies del Greenwich Village, una di quelle serate, cioè, dove i musicisti suonano qualche brano e per poi passare il cappello per le offerte (nello stesso modo, due decenni dopo, troverà la via del successo anche il suo discepolo Bob Dylan). Marjorie è una ballerina di successo, è una donna bellissima ed è dotata di grande intelligenza, che le permetterà, dopo la morte del marito, di intraprendere anche una seconda carriera nella ricerca medica. In più, è figlia di due militanti sionisti, femministi e anarchici, e così anche lei, come Guthrie, è un’attivista. Ciò che però più di tutto affascina il cantautore sono i racconti dei viaggi e delle lotte politiche della madre di Marjorie, la scrittrice yiddish Aliza Waitzman. Fuggita illegalmente ancora ragazzina dallo shtetl di Ozarinetz in Bessarabia, “Bubbie”, come la chiamano in famiglia, ha molto in comune con Guthrie e rappresenta per lui una finestra spalancata sul mondo ebraico. I due si scambiano pareri sulle opere e discutono di politica e di cultura ebraica.
Così, il cantore degli Okies si rende conto che razzismo e disparità sociale coinvolgono non solo gli afroamericani e i braccianti ma anche gli ebrei di qua e di là dell’Oceano, e decide di scriverne nei suoi testi. Compone canzoni sui drammi della Seconda Guerra Mondiale, canta del sequestro della nave di migranti ebrei “Exodus 1947”, dell’esecuzione di militanti della Resistenza ebraica in Palestina e della costituzione di campi di internamento a Cipro, con toni anche molto decisi. Come in una lirica inedita del 1947, dove se la prende con Winston Churchill, artefice di una politica antiebraica: “Il vecchio Churchill sta facendo del suo meglio per imbrattare il mio sangue ebraico”.
Ma è anche e proprio la cultura ebraica in sé ad affascinare Guthrie. Un interesse, questo, certo non nuovo al menestrello, che tra le sue influenze maggiori ha già diversi intellettuali ebrei. Tra questi, oltre al suo manager Harold Leventhal, anche il direttore del giornale The People’s World, Ed Robbin, e il produttore Moses Asch: se il primo, amico di una vita, è il principale responsabile del suo avvicinamento ai temi sociali, il secondo, figlio dello scrittore yiddish Scholem Asch, dà alle stampe molti dei suoi dischi con la Folkways Records – storica etichetta da lui fondata, che tanta parte avrà nella fioritura del Folk Revival (ma questa è un’altra storia).
Entrato pienamente a far parte di una famiglia ebraica, Guthrie ha ora modo e tempo di approfondire questo suo interesse e lo fa con dedizione. Come spiega la figlia Norah, in quel periodo suo padre non si limita a tormentare la suocera di domande sulla cultura e la storia ebraiche, ma frequenta anche diversi corsi di ebraismo al Brooklyn Community College. A lui poi spetta in famiglia il ruolo di accendere la menorah, che ogni tanto delega al figlio Arlo, altro grande cantautore, che Guthrie è solito chiamare affettuosamente con il nomignolo “dybbuk”, come il demone del folklore ebraico. Sempre a detta della figlia, l’ebraismo in casa Guthrie significa prima di tutto leccornie della cucina ashkenazita: il venerdì sera appuntamento fisso dalla nonna Bubbie, dove il menù comprendeva blinis, latkes, polpette in agrodolce, aringhe e mazzot. Un pochino meno tradizionali pare fossero invece i preparativi per Chanukkah che, oltre a delle fatine di Channukkah, fatte a mano dai coniugi Guthrie, comprendevano anche un “Chanukkah tree”, ossia un albero di Natale. Non stupisce allora che il nativo dell’Oklahoma, il quale di sé ha sempre detto “canto quello che vedo”, si sia ritrovato a comporre canzoni sulla storia e le festività ebraiche.
Leggenda vuole che quelle dedicate a Chanukkah le abbia scritte tutte in cinque giorni quando, essendo autore anche di album per l’infanzia, gli venne chiesto all’ultimo minuto di suonare a una serie di feste per bambini organizzate da diversi centri ebraici di Brooklyn. Dodici di queste sono state musicate e pubblicate nel 2006 dal gruppo The Klezmatics e comprendono titoli come “Hanuka Dance”, “Hanuka’s Flame”, e quella “Happy Joyous Hanukkah” che dà il nome all’album. Ironia della sorte, tra queste non figura il brano col quale Guthrie accontentò l’amico Moses Asch: “The Ballad of Chanukah”. Per quello tocca accontentarsi di una scialba versione dei Magpie o delle parole del vecchio Moe, che a riguardo disse: “[Woody] ha preso la storia completa di Chanukkah, con le candele, i Maccabei e tutto il resto, e l’ha cantata come una leggenda americana”.
Fabio Fantuzzi, musicista e compositore – Pagine Ebraiche dicembre 2018
(6 dicembre 2018)