Un Espresso avvelenato
Non è agevole parlare dell’articolo di Giuseppe Catozzella “Nell’abisso della Palestina: viaggio di uno scrittore nel “buco nero del mondo“, pubblicato dall’Espresso il 26 novembre 2018. Trovo difficoltà, o, se volete, imbarazzo, prima di tutto perché questo articolo è apparso sull’Espresso.
Per le persone della mia generazione e di altre generazioni successive L’Espresso ha costituito (insieme a Il Mondo di Mario Pannunzio) uno strumento fondamentale di formazione civile. Non voglio nemmeno ricordare le grandi battaglie civili combattute dal settimanale a partire dagli anni ’50, prima sotto la direzione di Arrigo Benedetti e poi di Eugenio Scalfari. Voglio solo ricordare la posizione che il settimanale assunse al tempo della guerra dei Sei giorni del giugno 1967 – la guerra combattuta da Israele per difendersi dall’attacco portato contemporaneamente da Egitto, Siria e Giordania con l’esplicito obiettivo di distruggere lo Stato ebraico e che ha determinato la situazione che ancora oggi si trascina – una posizione di netto e chiaro appoggio ad Israele, una posizione che fu d’altra parte condivisa da tutte le forze politiche italiane e da praticamente tutta la cultura del nostro Paese, in particolare da quella che faceva riferimento alla sinistra democratica, con l’eccezione del PCI e della stampa che ad esso faceva capo.
Si sa che l’indirizzo di una rivista può cambiare, e L’Espresso dei nostri giorni è ben diverso da quello che sopra ricordavo. Ma da qui ad assumere uno stile e un linguaggio che richiama quello di pubblicazioni tedesche degli anni ‘30 ce ne corre, e già la necessità di scomodare gli eufemismi dovrebbe bastare.
Perché trovo così così grave il “pezzo”? Perché l’articolo di Catozzella non si può definire in senso stretto un reportage giornalistico che, anche se attraverso il filtro del punto di vista dell’autore, deve pur riferirsi a fatti, ad episodi. Quello di Catozzella appartiene ad un altro genere: quello dell’invettiva, una pura e semplice invettiva, che ovviamente non ha la forza e la capacità di altre celebri invettive che altri scrittori, probabilmente diversi anche nello spessore, hanno pronunciato in altri tempi.
Un’invettiva che esprime un giudizio anticipato, la cui razionalità è difficile cogliere, contro Israele, contro lo Stato ebraico, che viene raffigurato, secondo stilemi ormai abusati, come una sorta di Stato canaglia, capovolgendo non solo la cronaca ma anche la storia. Non ha perciò senso entrare nel merito di quanto scrive Catozzella. Si tratta di affermazioni arbitrarie e infondate, nello spirito di chi ritiene di poter raccontare quello che vuole in quanto gli è stato commissionato un articolo.
Basterà una citazione per illuminare tutto lo scenario. Scrive Catozzella, riportando come se fosse una verità indiscutibile l’affermazione di un palestinese che lo accompagna, riferendosi ai soldati israeliani: “I militari se vogliono sparano. E più sono giovani più sparano. Ammazzano. Tengono i coltelli pronti, in caso di uccisione estraggono il corpo dall’auto, gli affiancano un coltello e scattano due foto”.
Ecco, è questo capovolgimento della realtà che mette in evidenza tutta la malafede dell’articolo e non rende credibile niente di ciò che è stato scritto: perché, come sappiamo bene, quella di compiere attentati con l’uso del coltello è una tecnica abitualmente usata dai terroristi palestinesi, che non solo non viene negata ma anzi è esaltata, fino al punto che le Autorità palestinesi conferiscono una pensione alle famiglie di chi resta ucciso nel corso di queste azioni omicide e una pensione meno elevata quando l’attentatore sopravvive; in termini crudi, si tratta di un premio a chi uccide gli ebrei. Nell’articolo invece sarebbero i soldati israeliani a uccidere i palestinesi e a mettere loro in mano i coltelli. È un rovesciamento della realtà degno delle descrizioni di Orwell sulle tecniche dei regimi totalitari e che getta una luce sinistra ma realistica sul tasso di credibilità di tutto l’articolo.
E L’Espresso pubblica, forse senza capire che mentre pubblica, emana una sentenza di divorzio da un passato glorioso, glorioso nella cultura, glorioso nelle battaglie ideali. “Mala tempora…” verrebbe da dire, ma sarebbe riduttivo.
Valentino Baldacci
(6 dicembre 2018)