Il futuro alle spalle
Siamo una società che indietreggia. Questo è il ritratto che emerge dall’ultimo rapporto del Censis, il cinquantaduesimo, sulla «situazione sociale del Paese». Il report annuale è, non solo per gli studiosi, uno dei più autorevoli strumenti di analisi nell’evoluzione, a breve e medio termine, dell’Italia. Da esso risulta che ci sentiamo non solo assediati ma – soprattutto – privati di quella speranza di futuro senza la quale il presente risulta maggiormente insopportabile. Dopo il «rancore», derivate dalle delusioni per le promesse mancate, è arrivata la «cattiveria» di chi si sente abbandonato a sé e reagisce come può, trincerandosi sempre più spesso in quello che l’autorevole centro di studi definisce come «sovranismo psichico». Dice al riguardo il rapporto: «La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella. Si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale. È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive».
Parole forse non immediatamente comprensibili ma che, qualora siano lette con attenzione e quindi confrontate e analizzate con i dati statici a portata di mano, indicano la chiave dell’inverno del nostro malcontento, ossia l’angoscia da retrocessione. Sociale, economica ma anche culturale. Quest’ultima a volte quasi cercata, quando allo sforzo di capire la complessità di ciò che stiamo vivendo si sostituisce il bisogno enfatico di banalizzare tutto e poi di insolentire e insultare chiunque e qualsiasi cosa non siano riconducibili al perimetro dei nostri immediati interessi.
Non è solo un deficit etico quello che viene in tale modo denunciato bensì una decadenza progressiva della coesione sociale, ossia di quel bisogno di stare insieme poiché è solo da ciò che si possono trarre le risorse per il proprio futuro. La crescente intolleranza verso gli «altri» (non solo gli stranieri, a volte anche i vicini di casa) sta contribuendo moltissimo a sdoganare pregiudizi e a svalorizzare qualsiasi discorso politico che non sia basato sull’esclusiva ricerca di un colpevole, ciò purchessia. L’Italia negli ultimi dieci anni ha mediamente perso il 6,8% della sua capacità reddituale. Potrebbe sembrare una cifra contenuta, invece segnala un salasso collettivo. Che non colpisce tutti nel medesimo modo ma si rivela particolarmente accentuata nei segmenti sociali che si sono scoperti più fragili dinanzi ai cambiamenti, partendo dal ceto medio diffuso. D’altro canto, siamo «una società senza più miti né eroi». Sottolinea infatti il rapporto che: «i dispositivi della disintermediazione digitale continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record in termini di diffusione e di moltiplicazione degli impieghi. Oggi il 78,4% degli italiani utilizza internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all’86,3% e all’85,1%. I consumi complessivi delle famiglie non sono ancora tornati ai livelli pre-crisi (-2,7% in termini reali nel 2017 rispetto al 2007), ma la spesa per i telefoni è più che triplicata nel decennio (+221,6%): nell’ultimo anno si sono spesi 23,7 miliardi di euro per cellulari, servizi di telefonia e traffico dati. E abbiamo finito per sacrificare ogni mito, divo ed eroe sull’altare del soggettivismo, potenziato nei nostri anni dalla celebrazione digitale dell’io. Nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, siamo tutti divi. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente «fondamentale» per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani)». In tutto ciò, così come in molto altro, «le giovani generazioni in Europa sono una minoranza. La quota di cittadini europei di età compresa tra 15 e 34 anni è pari al 23,7%, quella dei giovanissimi (15-24 anni) ha un’incidenza di poco superiore al 10%. In dieci anni, dal 2007 al 2017, la coorte dei 15-34enni si è contratta dell’8%. L’Italia, con la sua quota del 20,8% di giovani di 15-34 anni sulla popolazione complessiva, di tutti i 28 Paesi membri dell’Ue è quello con la più bassa percentuale di giovani, diminuita nel decennio del 9,3%». Ma il vero snodo da cui ripartire è «l’ipoteca sul lavoro», così riassunta: «tra il 2000 e il 2017 nel nostro Paese il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. Tra il 2007 e il 2017 gli occupati con età compresa tra 25 e 34 anni si sono ridotti del 27,3%, cioè oltre un milione e mezzo di giovani lavoratori in meno. Nello stesso tempo gli occupati di 55-64 anni sono aumentati del 72,8%. In dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99. Mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143. A rendere ancora più critica la situazione è la presenza di giovani in condizione di sottoccupazione, che nel 2017 ha caratterizzato il lavoro di 237.000 persone di 15-34 anni: un valore raddoppiato nell’arco di soli sei anni». Dispiace dovere tornare su note così dolenti ma il rischio è che per molti nostri connazionali il futuro sia divenuto oramai il tempo che volge alle nostre spalle, non di fronte allo sguardo di ognuno.
Claudio Vercelli
(9 dicembre 2018)