Partiti rosa
Ho letto che gruppi di donne penserebbero a un “partito rosa”. L’ebraismo italiano ci ha già provato in anni recenti: la lista “Binah” (Saggezza), che oggi esprime la presidentessa UCEI Noemi Di Segni, nacque proprio come esperimento di genere nel 2012, salvo poi aprirsi a candidati maschietti nelle elezioni comunitarie successive. In linea teorica, simili iniziative non mi trovano d’accordo. Le obiezioni sono più che bolse: le donne non dovrebbero competere in un campionato separato, così come i giovani e chiunque possa essere ascritto a un gruppo specifico…
Tutto giusto, ma. Dalla teoria alla pratica può cambiare molto: fino a ieri, per il noto principio “a mali estremi estremi rimedi”. Cioè a dire: se gli uomini non sono in grado di autoregolarsi col buonsenso, garantendo alle donne pari opportunità di accesso a cariche e posizioni, allora tanto vale obbligarli. Ed ecco il discorso, certamente imperfetto ma tutto sommato positivo, che ha condotto all’istituzione delle quote (rosa, ma non solo) in vari ambiti.
Ma oggi mi sembra ci sia di più. Non sono le donne ad avere bisogno di aiuto, ma gli uomini! Prendiamo il caso dei partiti. Sono ridotti come sappiamo, e le donne paiono dire: tenetevela voi la bad company, noi ci facciamo una cosa diversa (di nuovo Binah), poi casomai vi invitiamo. Del resto, in questo mondo occidentale esangue e impoverito Angela Merkel è stata ed è il leader più longevo e carismatico. E dobbiamo alle donne le iniziative più dirompenti degli ultimi anni, dal #MeToo in giù.
Insomma: non è affatto detto che queste, resesi autonome e in principio anche leggermente ostili, sappiano fare di meglio. Ed eviterei la retorica sul multitasking e lavorare mentre si educano i figli. Piuttosto, la questione è: che rischio corriamo? Anche nel peggiore dei casi, come potrebbero fare più danni dei maschi?
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas @tobiazevi