Machshevet Israel – Lo strano amore di Giambattista Vico
Ero a lezione del professor Paul Mendes-Flohr, all’Università ebraica di Gerusalemme, quando sentii per la prima volta accostare il pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744) all’ebraismo. La citazione mi sorprese: sia per la mia scarsa dimestichezza (di cui mi vergognavo) con questo autore italiano e l’ancor più scarsa comprensione della sua difficile scrittura; sia per il dubbio che l’impianto altamente barocco e cattolico – barocco in quanto cattolico – del suo pensiero avesse davvero potuto influenzare il pensiero ebraico. Eppure questo sembra proprio il caso di Nachman Krochmal (1785-1840), esponente di spicco dell’haskalà nella Galizia orientale, oggi Ucraina, e autore in ebraico di una “Guida dei perplessi del nostro tempo”, apparsa postuma per merito di Leopold Zunz nel 1851. È in quest’opera che l’influenza di Vico si farebbe maggiormente sentire, nel forgiare una filosofia ebraica della storia ‘a due registri’: quello di Israele, nel segno dell’eternità, e quello degli altri popoli, nel segno del sorgere e del tramontare, come ogni altro organismo storico. Krochmal è quasi sempre accostato ai nomi dei grandi idealisti tedeschi, Schelling e Hegel in particolare, e la sua opera mantiene un intento apologetico, ossia difende l’ebraismo contro gli attacchi della teologia cristiana, criticando quanti lo vorrebbero solo quale fase propedeutica e trampolino di lancio della ‘vera fede’.
Questo inaspettato accostamento di Vico al pensiero ebraico si deve, credo, a due grandi studiosi: Simon Rawidowicz, che progettò una riedizione in originale degli scritti krochmaliani (apparsa dopo la sua morte nel 1961), e Martin Buber, che già negli anni Trenta scriveva: “Krochmal, il fondatore della filosofia della storia ebraica, segue il fondatore della moderna filosofia della storia, Giambattista Vico, anche nella sua partizione temporale della storia universale in storia dei popoli e storia di Israele, in quanto [storie] sottoposte a una duplice legge” (cito da una famosa conferenza, in Germania, del gennaio 1941, oggi conosciuta con il titolo “Israele e i popoli”). Alla radice di questa duplicità di legge storica, per così dire, starebbe l’antica dottrina ebraica detta degli “angeli delle nazioni”: il Creatore del mondo avrebbe assegnato a ogni popolo della terra un angelo o un principe, come guida spirituale, affinché venga da lui protetto e orientato al bene; nondimeno decise di proteggere e guidare Lui stesso, senza mediatori, il popolo di Israele. Secondo Krochmal il ‘genio delle nazioni’, concetto assai diffuso nel mondo tedesco d’inizio XIX secolo, altro non sarebbe che questo angelo o principe o forse principio (alcuni esegeti antichi identificarono la figura che affrontò nottetempo Ja’akov/Giacobbe-Israele allo Jabbok come l’angelo protettore di Esaù); il genio di Israele, invece, non può che essere la conoscenza diretta del suo Protettore/Liberatore. Ne consegue, dice Buber che “i popoli assolutizzano ciascuno il proprio Sé e lo adorano come tale, mentre Israele sperimenta l’assoluto come ciò che egli stesso non è e che non può diventare”.
In un frangente culturale di nuovo populismo sarebbe utile rinverdire questa antica dottrina teologico-politica della storia attestata nelle fonti ebraiche più antiche. Una storia che, ebraicamente, resta inconcepibile senza l’idea e la fede nella Provvidenza divina, idea e fede che ispirano, guarda caso, anche “La Scienza Nuova” (1730) del Vico. Eccone un passo: “L’huomo (…) dalla Provvidenza Divina deve essere tenuto dentro tali ordini… per i quali, non potendo l’huomo conseguire ciò che vuole, almeno debba conseguire ciò che dee, dell’utilità, che è quel che si dice giusto. Onde quella che regola tutto il giusto degli huomini è la Giustizia Divina, la quale ci è ministrata dalla Divina Provvidenza per conservare l’umana società. Perciò questa Scienza per uno de’ suoi principali aspetti dev’essere una Teologia Civile della Provvidenza Divina, la quale sembra aver mancato finora al Mondo delle Scienze” (le maiuscole sono nel testo vichiano e la citazione è dall’edizione recente curata per Bompiani da Vincenzo Vitiello).
Il filosofo ebreo francese-israeliano André Neher sostiene che un’anticipazione dello spirito della modernità – dalla pedagogia di Comenio alla politica di Vico e Rousseau, fino alla dialettica di Hegel e Krochmal – fosse giù adombrata negli scritti del Maharal di Praga. E’ ancora Buber, in un libro in tedesco del 1950, ad affermare: “Noi possiamo vedere in Rabbi Loew ben Bezalel [il Maharal] il vero fondatore di una filosofia della storia specificamente giudaica, quale tentativo ideale di intendere il destino storico del popolo di Israele in correlazione con gli eventi del mondo guidati da Dio” (da “Israele”, Garzanti 1964). Mi chiedo allora se, nel ricostruire la catena di questi tentativi di una specifica filosofia ebraica della storia, non potremmo risalire ancora e arrivare allo stesso Moshe rabbenu?
Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI