Salvini in Israele,
opinioni a confronto
La missione del ministro Matteo Salvini in Israele ha suscitato un ampio dibattito, all’interno e all’esterno del mondo ebraico. Diverse le voci che ospitiamo, per favorire il libero confronto delle idee, all’interno di uno specifico spazio di approfondimento con riflessioni precedenti e successive alla visita.
I lettori che lo desiderano potranno proporre un proprio scritto sul tema dopo aver preso visione delle indicazioni generali che appaiono come ogni giorno in fondo al notiziario quotidiano Pagine Ebraiche 24.
Il Presidente di Israele Rivlin non incontrerà Matteo Salvini nel corso della sua visita in Israele. La motivazione datane è che la sua agenda è fitta di impegni. Il Presidente Rivlin ha recentemente dichiarato in un’intervista alla CNN che Israele non dovrebbe accettare di avere rapporti con politici vicini al fascismo, anche se si professano amici di Israele. E il Presidente della Conferenza dei Rabbini Europei Pinchas Goldschmidt ha dichiarato recentemente che “se un partito è intrinsecamente razzista e intollerante delle minoranze, gli ebrei diventeranno il suo obiettivo in futuro, anche se non lo sono ora”.
Anna Foa
Quando si ascolta un pensiero altrui, si pongono almeno due interrogativi: che cosa esattamente quel pensiero affermi e da che cosa quel pensiero sia motivato. Difficilmente è possibile dare una risposta certa ai due interrogativi, specie al secondo.
Nel Manifesto di domenica scorsa, Moni Ovadia ha concluso un suo intervento sulla visita di Salvini in Israele con le seguenti parole: “Ma se gli ebrei del tempo di Hitler fossero stati come gli israeliani alla Netanyahu, i nazisti avrebbero progettato la Endlösung? La mia risposta è: non credo.” Chiariamo che la Endlösung è la eufemistica e maledetta ‘soluzione finale’.
Non occorre specificare che, per quel che riguarda chi scrive, Salvini rappresenta il tipico ‘filosionista antisemita’ cui fa riferimento Ovadia. Basti vedere il modo in cui da tempo si sta impegnando a mostruosizzare il filantropo ebreo George Soros. Salvini non ama i diversi, non ama le minoranze. Nulla può convincere a giustificare ebraicamente – e umanamente – il pensiero di Salvini, la sua lotta all’emigrante in cerca di aiuto, la sua linea dura con ogni espressione di umanità e, d’altro canto, la sua condiscendenza con i fenomeni mafiosi e neofascisti, Casa Pound in primis.
Ma, ciò detto, vien fatto di chiedersi se, per dire di Salvini ciò che Salvini merita di sentirsi dire, e per fare a Netanyahu le legittime contestazioni che ci si può sentire di fargli sia necessario produrre corti circuiti come quello vergognoso proposto da Ovadia. Chiedersi se “se gli ebrei del tempo di Hitler fossero stati come gli israeliani alla Nethanyahu i nazisti avrebbero progettato” la Soluzione finale, e rispondersi di no, come fa Ovadia, significa proporre un accostamento fra la destra israeliana e il nazismo (che per quella destra, congettura Ovadia, certamente simpatizzerebbe). Un’analogia ardita, un espediente retorico di grande effetto, che Ovadia usa con lucida consapevolezza. Solo che di solito questa sorta di analogia la propongono gli antisemiti, spesso dalla sinistra ideologica, nostalgicamente terzomondista.
La politica di Netanyahu mi ha sempre lasciato perplesso, e con le idee di Salvini non ho mai provato grandi affinità. Ma quello che fa Ovadia per ottenere il suo effetto retorico, e per continuare a essere accolto nel Manifesto – giornale che alla situazione israeliana dedica da sempre uno sguardo strabico –, è un servizio sgradevole alla confusione ingenerata da chi ama confondere israeliani ed ebrei. È l’omaggio alle riattualizzazioni storiche, fatte “di se e di ma” per riempire le fosse di un pensiero assente.
È sin troppo naturale che quando si conduce una battaglia ideologica, specie se questa negli anni è diventata un’ossessione, si ricorra a estremismi linguistici e dialettici anche spinti, paradossali, talora assurdi. Esistono tuttavia dei limiti che anche chi della retorica abbia fatto il proprio mestiere non può non riconoscere e non può travalicare. Sono i limiti del buon senso, i limiti dell’etica a cui di continuo si pretende di richiamarsi. E sono i limiti imposti dalle verità plurime di tutte le parti in contesa, i limiti del rispetto che si deve a chi coi nazisti ha avuto a che fare, dall’altra parte della barricata, quella che portava dritta alle camere a gas.
Non si sorprenda, poi, Moni Ovadia se alle provocazioni linguistiche e retoriche che riaprono, senza troppa delicatezza, le ferite della Shoah qualcuno risponde in modi inconsulti.
Dicevo all’inizio che quando qualcuno esprime un’opinione il primo problema è capire che cosa intenda affermare e il secondo che cosa lo spinga ad affermare quella cosa. Difficile rispondere. Ma la prima responsabilità della comunicazione è di chi codifica il proprio pensiero in linguaggio, non di chi lo interpreta, magari fraintendendolo. Ma la codifica ambigua del messaggio è a volte usata ad arte per impedire al linguaggio di prestarsi al dialogo. A questo punto, allora, l’interrogativo diventa un altro: al servizio di chi sono la provocazione pura e il monologo?
Dario Calimani
Io che sono cresciuta con un partigiano come Presidente, in tempi di vittoria ai mondiali e pipa fumata con la nonchalance antica del Novecento, ho poi sempre provato un rispetto vicino al vero affetto per quei Presidenti che riescono a non essere solo i garanti della Costituzione ma esempio di valori nei quali mi riconosco e in cui dovrebbe a logica riconoscersi l’Italia intera. Pertini è stato un imprinting non facile poi da replicare nei decenni successivi, ma l’ho ritrovato tutto nel lieve imbarazzo davanti all’applauso senza fine che l’attuale Presidente Mattarella ha ricevuto con sua evidente sorpresa alla Scala qualche giorno fa. L’abito non fa il monaco, dice il proverbio, e forse non è poi tanto vero. In Israele al mio arrivo era da poco insediato Shimon Peres z’l, che in modo fortemente israeliano ha rappresentato il meglio assoluto dello spirito sonista moderno; quello che non smette mai di costruire ponti fra culture e nazioni e promuove l’innovazione e l’alta tecnologia con lo scopo ultimo di rafforzare il Paese.
Oggi il suo successore Ruby Rivlin, in modo molto simile a Mattarella fa da coscienza e da figura paterna ad un paese che attraversa cambiamenti non facili che si aggiungono a vecchi conflitti mai risolti. E il fatto che Rivlin non sia interessato ad incontrare il capo di un partito straniero di destra populista e xenofobo così lontano dai valori di inclusione e integrazione su cui è stata fondata e continua a funzionare Israele è una cosa perfettamente logica e normale. “Dobbiamo […] lavorare con tutto il mondo per combattere la xenofobia e la discriminazione, di cui l’antisemitismo è una variante”, ha detto qualche giorno fa alla CNN. “Oggi ci sono movimenti neofascisti che hanno un’influenza considerevole e molto pericolosa, e talvolta esprimono anche il loro forte sostegno allo Stato di Israele”.
Evviva i Presidenti normali che pare facciano cose straordinarie anche quando affermano l’ovvio o semplicemente si prendono un applauso.
Daniela Fubini
Noi siamo un popolo difficile e difficile è essere ebrei e vivere nella diaspora.
A volte però dimentichiamo che, senza l’esistenza dello Stato di Israele, essere ebrei non sarebbe difficile, ma impossibile.
Ieri abbiamo assistito ad una visita a mio parere storica di un ministro italiano che, seduto in una scrivania di Gerusalemme, ha definito il gruppo di Hezbollah un gruppo terroristico senza se e senza ma.
Tutto ciò ha fortemente infastidito alcuni, anche ebrei, che addirittura ritengono che queste dichiarazioni siano un pericolo per i militari italiani dell’Unifil.
Mi domando allora, cosa ci stanno a fare questi militari? Stanno lì come burattini solo per immagine, ma attenti a non urtare la suscettibilità dei degli uomini di Hezbollah?
Questo lascia intendere la dichiarazione del ministro della Difesa italiano alla quale ha prontamente controreplicato Salvini ribadendo che i terroristi vanno chiamati con il proprio nome senza paure e senza incertezze.
Le due conferenze stampa tenute ieri da Salvini a Gerusalemme sono una vera e propria svolta nella politica estera italiana, non tanto per i suoi contenuti, quanto al fatto che le dichiarazioni stesse vengono fatte da un ministro di un governo di coalizione, formato assieme ai Cinquestelle, con la piena coscienza che questa posizione non è in alcun modo condivisa dal proprio alleato di governo.
Dunque, non solo coraggio umano ma anche e soprattutto coraggio politico assunto da quella che oggi è la figura politica più importante in Italia e forse in Europa.
Dicevo prima che a volte noi ebrei della Diaspora dimentichiamo appunto l’importanza dell’esistenza dello Stato di Israele.
Dico questo perché, sebbene abbiamo assistito ad una visita incredibilmente e internazionalmente importante per lo Stato di Israele, registriamo critiche feroci allo stesso autore di questo coraggioso passo, accusandolo di una vicinanza con i più estremi gruppi politici di destra.
Con il presupposto che questa vicinanza è tutta da dimostrare e che comunque sarebbe gravissima, al momento è solo testimoniata da una foto di una cena con esponenti di Casapound datata 2015, quindi tre anni fa, e perdipiù non si capisce su che basi storiche e di curriculum si possa accusare Salvini di fascismo.
Se poi del temine fascista se ne può fare un uso libero ed indiscriminato, tra l’altro minimizzando l’orrore del vero fascismo, allora tutti possiamo essere definiti fascisti dal momento che ci si trovasse malauguratamente a non pensarla come la moderna e secondo me obsoleta sinistra.
Questo però a noi ebrei dovrebbe interessare poco, invece in questa battaglia tra chi ritiene Salvini pericoloso per gli ebrei e chi non la pensa così, ci si sta pericolosamente dividendo.
Ha senso infine per la Comunità ebraica italiana scagliarsi contro un leader italiano solo per un futuro ipotetico voltafaccia che questa persona dovrebbe fare nei confronti degli ebrei e di Israele?
Non capisco, forse non lo capirò mai…
Giorgio Heller
La mia impressione sulla visita di Matteo Salvini in Israele è che il ministro fosse sinceramente interessato e attento alla nostra storia. Sono contento che la Presidente UCEI Noemi Di Segni abbia accettato anche lei l’invito. Dobbiamo lavorare tutti insieme per proteggere la religione ebraica, Israele e i diritti di tutti.
Rav Menachem Lazar
Quando le contraddizioni diventano corto circuiti, prima o poi qualcosa prende(rà) fuoco.
Evviva Matteo Salvini che va in Israele per appoggiare Benjamin Netanyahu, per essere da lui kasherizzato e per dirci quanto bene vuole a noi ebrei. Il Salvini che – come Bibi del resto – cerca strette alleanze con la destra xenofoba, razzista e antisemita al governo di Ungheria e Polonia. Il medesimo Salvini che dichiara e poi non contento twitta: “Visti i problemi che ci sono in Francia, l’Europa può ripartire dal dialogo tra Berlino e Roma. L’asse franco-tedesco sta mostrando dei limiti, farò di tutto per rinnovare un nuovo asse Roma-Berlino”.
A proposito di brutti vecchi ricordi: o mi è sfuggito qualcosa oppure dal Nostro non è arrivato neppure un fiato sullo scempio alle pietre d’inciampo romane.
Stefano Jesurum
“Siate cauti nei vostri rapporti con i potenti: essi avvicinano quelli che si possono sottomettere solo a loro vantaggio; quando fa loro comodo, si mostrano come amici, ma non soccorrono l’uomo quando questo ne abbia bisogno” viene insegnato notoriamente nei Pirkè Avot (Massime dei Padri): i “potenti”, come riportano peraltro alcune traduzioni, sono indubbiamente anche i governanti ovvero i politici. Si può quindi parlare di “antipolitica” della morale ebraica alla luce di questo invito quanto mai attuale? Non credo ma trovo eloquente l’invito alla cautela, all’essere prudenti. Ai tempi della comunque rimpianta cosiddetta Prima Repubblica, non solo la natura delle singole forze politiche era facilmente identificabile, ancorata ciascuna alla propria tradizione, ma anche il dibattito politico si svolgeva con modalità e tempi meglio assimilabili da quanti interessati a seguire la politica. Oggi i contorni delle forze in campo sono in continua e confusa mutazione, spesso con aggregazioni che a loro volta contengono diversi orientamenti al proprio interno, svolgendosi il “dibattito” praticamente senza interruzioni e su vari mezzi, con un rincorrersi caotico di prese di posizione, smentite e controsmentite. Ne consegue quanto sia sempre più opportuno l’uso della prudenza nell’innamorarsi del leader di turno che, altalenante come un titolo impazzito in borsa, può farci stravedere per lui con una dichiarazione salvo poi deluderci profondamente con quella dopo. Ad aggravare il tutto si aggiunge anche il fatto che, ormai, quello che tradizionalmente si definirebbe “dibattito politico” è mutato in una sorta di “tifo politico”, assimilabile a quello calcistico, che prescinde dai contenuti del confronto e si esprime, solamente e fideisticamente, nell’affermare noiosamente quanto buono e bravo sia l’amato leader del momento e la compagine che rappresenta, indipendentemente dall’argomentare sulle questioni.
Anche il nostro piccolo mondo ebraico, peraltro in sintonia con la società italiana in genere, sembra essere affetto da questa sindrome assai illiberale e che si esprime con evidenza in molti scambi nei social, con numerosi post che vorrebbero presuntuosamente “illuminare” le menti, non di rado con toni rudi e sprezzanti nei confronti di chi non si allinei o magari avanzi dubbi e distinguo.
Non credo che occorra una grande memoria storica per ricordare, da Berlusconi a Prodi passando per tutti gli altri sino a questi giorni, come momenti di gioia e di dolore si siano alternati anche a riguardo di argomenti ai quali gli ebrei sono particolarmente sensibili, quali Israele, il fascismo e l’antifascismo, il razzismo. A tante belle dichiarazioni, trasversalmente espresse, sono poi seguite genuflessioni al mondo arabo, all’Iran, a personaggi e formazioni politiche orgogliosamente di destra fascista o di sinistra estrema, in entrambi i casi con seguito di posizioni antisemite, magari mascherate da antisionismo, e anche razziste e così via dicendo. Conscio di essere probabilmente, per non dire sicuramente, in marcata minoranza ma non preoccupandomi di ciò, credo allora che sia opportuno ricordare, memori dell’insegnamento dei Pirkè Avot, che anche in politica il Principe Azzurro non esiste mentre, invece, esiste necessariamente il Principe dell’omonimo e sempre attuale trattato politico di Machiavelli.
Gadi Polacco
Ma davvero si pensa che l’appoggio strumentale di politici odiosamente razzisti e xenofobi possa essere acquisito e gestito come un successo degli ebrei e in particolare di quelli purtroppo costretti a vivere nello stesso paese di costoro? E’ veramente miope e imbarazzante, oltre che offensivo per milioni di persone e in particolare per quelle più deboli, trattare razzisti e xenofobi come i migliori sostenitori dello Stato di Israele. Le posizioni di questi politici sono evidentemente strumentali. Dimenticare ciò che giorno dopo giorno fanno ai più derelitti della terra non è possibile. Chi lo fa, sull’onda di un realismo cieco e smemorato, aiuta di fatto i razzisti e gli xenofobi a portare avanti le loro campagne d’odio e le loro iniziative quotidiane liberticide. Come fa chi ha subito le leggi razziali e la Shoah ad accettare tutto ciò?
Paolo Brogi
Mi telefona un giornalista da Israele. Intervista sull’antisemitismo nell’Italia contemporanea. Domande più o meno scontate: ma c’è antisemitismo in Italia? Che ruolo ha nella politica contemporanea? Ma la Lega com’è? E l’Islam? E l’immigrazione? Una visione contingente che non consente di farsi un quadro reale del ruolo che l’antisemitismo ha giocato nella costruzione di un immaginario sommerso e radicato nel profondo. A volte dormiente, altre spumeggiante, l’ostilità antiebraica italiana si nutre di una letteratura propria e per lo più misconosciuta. Chi volesse occuparsi della cura di un’antologia tutta italiana (altro che Mussolini ispirato da Hitler!), dovrebbe inoltrarsi nella pamphlettistica dell’Ottocento. Ecco alcuni consigli di lettura: Francesco Gambini, Dell’ebreo possidente, Torino 1815; dello stesso autore anche Della cittadinanza giudaica in Europa, Torino 1834. Era un funzionario giacobino, passato in seguito a servizio di casa Savoia. Gambini è l’espressione più precoce, violenta e diffusa di un antisemitismo “nazionale” italiano. Poi si passi a padre Ferdinando Jabalot, Degli ebrei nel loro rapporto con le nazioni cristiane, Roma 1825. Era un predicatore Domenicano, una delle più cristalline testimonianze di antisemitismo cattolico. Un testo più tardo è poi quello del padre gesuita Antonio Bresciani, L’ebreo di Verona, pubblicato a puntate dalla “Civiltà Cattolica” negli anni 1850-51. Uno scritto fondamentale, nel quale la figura dell’ebreo viene ormai accomunata a quella del liberale borghese “anticristiano” nella polemica contro il progresso che sarà fondamento essenziale della rottura fra Chiesa e Stato unitario fino all’inizio del secolo XX. Trent’anni più tardi si va decisamente sul pesante quando un anonimo dà alle stampe a Prato Il sangue cristiano nei riti ebraici della moderna sinagoga (1883). Un volumetto che propone come reale pericolo tutto il bagaglio di superstizioni legate ai riti ebraici. E non mi perderei di Paolo Mantegazza, La razza ebrea davanti alla scienza, in “Il Fanfulla della Domenica” 20-27 settembre 1895. Igienista di chiara fama e dichiaratamente non antisemita, è protagonista di una chiara espressione di antisemitismo razzista della prima ora. Il testo diede il via a una dura polemica con l’economista ebreo Leone Carpi. Mi fermerei qui. Nel Novecento ci sarà ben altro, ma i fondamentali sono tutti qui. Buona lettura.
Gadi Luzzatto Voghera
C’eravamo quasi abituati a visualizzare i post al veleno del nostro ministro dell’Interno durante i suoi pasti frugali, in prima linea con varie divise sui luoghi delle ultime tragedie, con in mano ruspe e rosari, in diretta da piazze affollate di tricolori e qualche croce celtica, mentre metteva alla gogna mediatica qualche personaggio a lui sgradito – persino delle ragazzine minorenni – o mentre esultava per qualche sgombero o arresto, magari con addosso qualche t-shirt di marchi legati all’estrema destra. In qualche modo – e scrivo come sempre a titolo strettamente personale – sarebbe forse bastato. Non eravamo però abituati a seguire via Facebook il nostro ministro dell’Interno dentro lo Yad Vashem o con una kippah davanti al Kotel, mentre i suoi sostenitori alternavano commenti d’esultanza a commenti decisamente antisemiti. Chiaramente, gli ultimi gesti citati, se realmente sentiti e non puramente “da passerella”, sono senza dubbio lodevoli, così come la sua vicinanza a Israele e le prese di posizione nei confronti di Hizbollah. Ma come hanno scritto non pochi sia in Italia che in Israele, non penso che tutto questo possa essere in sintonia con un atteggiamento d’istigazione all’odio verso l’altro che l’attuale governo, alla stregua degli altri alleati in Europa, sembra approvare, e non per adesso frenare. L’antisemitismo in qualunque sua forma che il ministro si è impegnato a combattere, e la permanenza del ricordo della Shoah, non possono discernere da una lotta più ampia contro qualunque espressione xenofoba, contro coloro che cercano di riabilitare il fascismo o di riscrivere la storia, e contro coloro che stanno conducendo i propri paesi verso derive autoritarie. Mi auguro che questo viaggio in Israele possa significare per Matteo Salvini un’ottima occasione per riflettere e un cambio di rotta in queste direzioni. “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” direbbe Stan Lee. L’intelligenza e le capacità probabilmente non mancano al ministro, serve piuttosto un po’ di forza di volontà e sicuramente la perdita di buona parte del consenso che negli ultimi anni egli è riuscito ad ottenere.
Francesco Moises Bassano
Salvini è venuto in Israele in visita di Stato non a rappresentare la Lega.
Lo Stato d’Israele come ogni Stato nazionale intrattiene rapporti con altri Stati per ottenere e mantenere vantaggi diplomatici ed economici. Vale anche per l’Italia.
Possiamo rallegrarcene? Possiamo rallegrarcene sia come israeliani, sia come italiani. Evidentemente vi sono ragioni oggettive di convergenze di interessi reciproci per la crescita e il benessere di entrambe le nazioni.
Raccogliere le firme per contestare la visita del Vice Primo Ministro italiano e Ministro dell’Interno rende odiosi i firmatari, ma questo non interessa loro, ma soprattutto rende odiosi gli ebrei come firmatari e odiosi gli israeliani che sbattono la porta in faccia a chi viene in visita.
Per capire il dibattito in corso basta tracciare una linea per separare chi cerca nuovi alleati e chi cerca di farsi dei nemici.
Reuven Rivlin, Presidente d’Israele, con la sincerità e il linguaggio diretto che lo contraddistingue ha detto quello che tutti gli israeliani sanno e sentono. “L’antisemitismo ci preoccupa e la negazione d’Israele di esistere ne è una estensione”; “l’antisemitismo e l’odio per le minoranze corrompono le società”; “Israele conosce il pericolo del l’antisemitismo e non è disposta a tollerare la sua rinascita”; “i neofascisti non possono ammirare Israele perché il neofascismo è nemico di Israele”. Rivlin non chiude la porta e non rifiuta di incontrare nessuno.
Rivlin è la controparte di Mattarella e un vice Primo ministro italiano ha incontrato un Primo ministro israeliano.
Il politico non fa amicizie, ma intreccia alleanze. Se fa l’opposto non lavora nell’interesse del suo paese.
Il dibattito politico italiano deve liberarsi delle personalizzazioni per valutare i fatti e non i sogni.
Le stesse “dichiarazioni preoccupanti” di Salvini che definisce “Hezbollah terroristi islamici” fanno infuriare la Difesa e Unifil. Unifil è la forza di interposizione a comando italiano che dovrebbe vigilare sulla pace al confine tra Libano e Israele e sotto le cui postazioni passano i tunnel scavati per penetrare in Israele per uccidere o rapire. L’Italia crede di restare intangibile dal terrorismo islamico se chiude gli occhi. Bisogna protestare contro quanti vogliono imbrigliare le coscienze e pensano che per salvare l’Italia dal terrore basti svendere gli ebrei che vivono in Israele.
Salvini questo ha detto, da politico.
Le contestazioni alla Lega trovano spazio in Italia. E sicuramente c’è molto materiale per contestarlo.
Non in questa circostanza in Israele.
Joe Shammah
La breve visita di Matteo Salvini in Israele, al netto dei giudizi politici formulati in base alla disposizione d’animo favorevole o negativa nei suoi confronti, si inscrive dentro una strategia ampia e composita, non solo italiana, che vede in qualche modo protagonista lo stesso attuale titolare del dicastero degli Interni. La premessa è duplice, basandosi infatti su due presupposti ancora da verificare nella loro effettiva congruità. Il primo di essi è che l’ordinamento e gli equilibri internazionali di lungo periodo, emersi con la fine della Seconda guerra mondiale e consolidatisi in età bipolare, si stiano sgretolando una volta per sempre. Per farla breve, dal Novecento come “secolo americano” si starebbe passando, dopo un periodo di incerto multipolarismo imperfetto avviatosi alla fine degli anni Ottanta, ad un secolo ad egemonia cinese o del Sud-Est asiatico. In un tale quadro, tutti i paesi – o comunque quelli tra di essi che nel consesso internazionale hanno la forza di dire e fare qualcosa di significativo – sono chiamati ad un riposizionamento strategico, dal quale dipende il loro futuro non solo politico ma anche economico e, in immediato riflesso, civile. Si tratta di una prospettiva di lungo periodo sulla quale, tuttavia, il fronte delle forze sovraniste, in sé altrimenti assai composito se non intrinsecamente conflittuale, sta cercando di articolare in Europa indirizzi strategici da condividere al proprio interno. In gioco è il dare sostanza ad una piattaforma comune, che permetta di superare la fase transitoria, in sé fragile, delle mere intenzioni. A tale riguardo, mai sopravvalutare l’intelligenza (politica) degli attori in campo ma non per questo sottovalutarne preventivamente e pregiudizialmente le eventuali capacità di azione in divenire. Si inscrive in questa cornice, pertanto, la decisiva valutazione che l’Unione europea sia un organismo comunitario destinato a tramontare, sia pure in un lento ma non indolore declino. Il sovranismo si è candidato da tempo nell’accelerarne la dissoluzione politica, ritenendo molto più premianti, in prospettiva, accordi bilaterali basati sulla valutazione, di caso in caso, dei mutevoli rapporti di forza e del campo di interessi nel quale collocarsi. Salvini sta identificando i suoi interlocutori, anche perché da questa azione di reciprocità dipende il futuro politico suo e del ceto politico con il quale è destinato ad interagire per i tempi a venire. Benjamin Netanyahu, per intenderci, si inscrive completamente dentro questo quadro. È infatti esponente di una “nuova destra” (non importa se sia sulla scena pubblica da più di vent’anni), che si è lasciata alle spalle non solo parte della storica matrice likudista ma anche la sfortunata stagione neoconservatrice, tramontata prima con Obama e sotterrata poi soprattutto da Trump. La sua dialettica con Reuven Rivlin ne è un po’ la cartina di tornasole, dal momento che quest’ultimo – invece – è per più aspetti il depositario di posizioni maggiormente tradizionali, riallacciandosi ancora a molti elementi della cultura politica e del retaggio storico del “sionismo revisionista” (un’ accezione impropria, quest’ultima, ma necessaria per interdersi). Nel quadro strettamente europeo per Salvini è poi indispensabile tradurre in moneta politica spendibile, ovvero in relazioni durature con interlocutori ben identificati, non solo il marcato euroscetticismo – che potrebbe tradursi, in un ipotetico futuro, qualora ne maturassero le condizioni, anche nella scelta di uscire dal circuito dell’euro – ma anche gli altri due assi della sua proposta (il blocco dei processi migratori e la “lotta alle élite”). Ciò implica che oltre a figure mediane e relativamente deboli sul versante delle relazioni continentali, come l’ungherese Viktor Orbán, oppure l’austriaco Sebastian Kurz, il secondo molto freddino nei confronti degli italiani anche perché sempre più orientato verso i vecchi e rassicuranti lidi del centrismo popolare, si aggiungano partner di maggiore spessore ed incidenza, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, non più solo ipotetica vincitrice di elezioni a venire. La futura visita nel Brasile di Jair Bolsonaro, quando dovesse verificarsi, sarà il segno che Salvini prosegue nella tessitura di questa rete di relazioni non occasionali, laddove il vecchio “atlantismo” è destinato ad essere definitivamente sotterrato, a favore di altre opzioni. Il secondo presupposto, che si è misurato proprio durante il viaggio in Israele, è che l’asse su cui il sovranismo giocherà tutte le sue carte elettorali e ideologiche, dopo avere già da tempo svuotato una parte del serbatoio della vecchia sinistra (una partita le cui dimensioni in Italia meglio si comprenderanno quando il “contratto” di interessi tra Lega per Salvini e Movimento cinque stelle dovesse tramontare, portando ad elezioni anticipate che, in tutta probabilità, si svolgeranno l’anno entrante), sarà la ricerca e la caccia al voto centrista e conservatore, cercando di orientarlo verso orizzonti compresi nelle logiche della nuova destra. L’agenda della quale è in via di costruzione, basandosi su un unico presupposto condiviso, ovvero il crescente affaticamento delle democrazie liberali e sociali. Netanyahu, che ha peraltro una storia politica tutta sua, solo in minima parte riconducibile – e quindi comparabile – alle dinamiche europee e italiane, ha tuttavia anticipato politicamente quella tendenza, poi recepita anche nel nostro Paese. Si tratta di “radicalizzare il centro”, riformulandone l’identità su questioni indice, come le relazioni internazionali, quelle interne e sui temi rispetto ai quali si misura la distinzione residua nell’asse sinistra/destra dentro la crisi dei sistemi di rappresentanza tradizionali. Netanyahu non è “il nuovo che avanza” ma piuttosto colui che dice ciò che ci si vuole lasciare alle spalle, anche rispetto al proprio campo di appartenenza. Sta in questo novero la sostanziale perplessità – che si traduce a volte in moti di insofferenza – verso una parte dei tradizionali istituti della democrazia rappresentativa, ritenuti oramai inadeguati rispetto allo scenario politico internazionale (e di riflesso ai nuovi equilibri interni) che si va configurando. Salvini, al di là degli interrogativi sulla maggiore o minore sincerità rispetto alle sue prese di posizione riguardo a certi aspetti delle questioni mediorientali, e quindi nei confronti di Gerusalemme, identifica nel premier israeliano un interlocutore forte, con una sua acquisita e puntellata autorevolezza. Cosa sarà di tutto ciò, soprattutto cosa ne deriverà concretamente, potrà solo il tempo a venire dirci qualcosa. In quanto le variabili in gioco sono veramente tante, solo in parte ponderabili razionalmente.
Claudio Vercelli
Martedì 11 Dicembre era previsto un incontro del Vicepresidente del Consiglio e Ministro dell’interno Matteo Salvini con gli “italkim”; al suo arrivo in Israele; il Ministro avrebbe infatti dovuto incontrci nei locali della “Hevrà”, al Tempio Italiano di Gerusalemme.
Il Primo Ministro Netanyahu, con mossa a mio avviso indovinata, ha invitato Salvini a visitare i tunnel scoperti al confine con il Libano e quindi non abbiamo potuto ospitare il Ministro in quella occasione; ci ha comunque raggiunto la delegazione italiana, delegazione composta da esponenti del suo staff.
Il benvenuto alla delegazione, in assenza del Presidente della Hevrà Sergio Della Pergola, è stato dato dall’ex Presidente della Comunità di Roma, Leone Paserman, che ha accennato brevemente alla storia del Tempio Italiano, che in passato si trovava a Conegliano Veneto. L’atmosfera è stata subito improntata alla massima cordialità, visto che la delegazione era formata soltanto da esponenti della Lega (non ne facevano parte i grillini). Dopo un breve giro nel Museo, è seguito uno scambio di battute con i componenti della delegazione. Ho ricordato gli ottimi rapporti culturali e scientifici fra Italia e Israele, ho sottolineato la fiducia nel futuro degli israeliani (cosa che purtroppo non si verifica in Italia), ho fatto presente l’amore che gli israeliani nutrono per l’Italia; ho quindi chiesto perché, a fronte ti tutto ciò, i media continuino a ignorare tutto il buono di Israele e a non esimersi da continui attacchi. Mi è stato risposto che oggi la comunicazione più efficace è quella “diretta” (Facebook, Twitter…) e su quella si lavora. Stando quindi a quanto ci hanno detto i responsabili della comunicazione dello staff di Salvini, dobbiamo fare la massima attenzione ai social. In effetti se penso, da un lato, all’inopportuno comunicato di J-call, subito ripreso da Repubblica, e al relativo mancato impatto, e penso, dall’altro lato, a tutti gli apprezzamenti giunti al Ministro su FB, devo condividere la risposta. Cecilia Nizza, già Vicepresidente della Hevrà, ha chiesto qual e’ la politica estera del governo gialloverde, viste le perplessità che suscitano i grillini. “Cambierà qualcosa all’ONU e nelle istituzioni internazionali?”. Le è stato risposto che, grazie a Salvini, qualcosa sta già cambiando (vedi Marrakech). Emblematico, ci è stato detto, il fatto che Salvini avrebbe visitato i tunnel al confine con il Libano e avrebbe raccontato quanto visto.
All’incontro con la delegazione è seguito l’appuntamento al giorno successivo allo Yad Vashem.
È noto a tutti l’intervento di Salvini dopo aver visitato i tunnel al confine con il Libano, e sono note le polemiche seguite all’aver definito terroristi gli Helzbollah.
Se ne è riparlato durante la visita di Salvini allo Yad Vashem. Dopo che il Ministro è stato accompagnato nei Luoghi della Memoria, soffermandosi in silenzio nella Tenda della Rimembranza, c’è stata la possibilità di scambiare con lui qualche parola. Siamo intervenuti in parecchi (La Presidente UCEI Noemi Di Segni ha sottolineato l’esigenza della massima vigilanza dopo l’episodio delle pietre d’inciampo divelte a Roma, David Cassuto gli ha manifestato l’orgoglio di essere italiano e israeliano, Jonatan Pacifici ha ringraziato la Polizia per la sua azione, in molti si sono rallegrati per le prese di posizioni del Ministro in favore di Israele, poche volte, forse mai, così nette “senza se e senza ma” – si è trovato d’accordo con me quando gli ho detto che alla fin fine non ha fatto altro che denunciare la violazione della risoluzione 1701 dell’ONU del 2006). L’intervento più significativo è stato comunque quello di Leone Paserman. L’ex Presidente ha ricordato gli ottimi rapporti tra Italia e Israele in moltissimi settori (economia, agricoltura, innovazione, sicurezza informatica, lotta al terrorismo islamico), e si è detto convinto che tali rapporti verranno rinforzati dalla visita del Ministro: ha successivamente espresso il suo apprezzamento per la dichiarazione approvata Giovedì 6 Dicembre all’unanimità dal Consiglio dei 28 Ministri dell’Interno e della Giustizia dell’Unione Europea che invita i paesi membri ad adottare le misure necessarie per assicurare la sicurezza delle Comunità ebraiche. Paserman ha però dovuto constatare i non buoni rapporti politici, soprattutto negli organismi internazionali, quali l’UNESCO e l’ONU, dove, salvo qualche rara astensione, l’Italia si appiattisce sulla posizione dell’Unione Europea, che, anzichè appoggiare gli Stati Uniti, alleati, andando contro il presidente Trump, difende l’Iran che sponsorizza il terrorismo e minaccia apertamente di distruggere Israele. Paserman ha concluso citando la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele, augurandosi che presto lo faccia anche l’Italia. Il Ministro ha ringraziato per tutti gli apprezzamenti ricevuti ed ha poi commentato le critiche: dopo aver ricordato le 700 (!!!) delibere ONU contro Israele, assolutamente non condivisibili, ha assicurato per il futuro un cambiamento di rotta e ha ribadito l’importanza della sicurezza di Israele. Per quanto riguarda Gerusalemme ha detto che, visto che l’attuale governo italiano è un governo di coalizione, occorre procedere “step by step”.
Concludo ribadendo l’ottima impressione lasciata da Salvini fra gli italkim. E considero quindi questa visita anche una garanzia per la sicurezza delle nostre Comunità.
Roberto Steindler
La visita del Ministro degli Interni Salvini in Israele ha indotto molti di noi, ebrei italiani e anche italiani residenti da lunga data in Israele , ad assumere una posizione ferma su un tema più generale che concerne i rapporti del governo d’Israele con partiti e movimenti di estrema destra in Europa e nel mondo. Dall’Austria alla Polonia, dall’Ungheria al Brasile, l’appoggio, pur strumentale e provvisorio, di partiti di destra inquinati dall’antisemitismo ma ostili all’Islam è una seduttiva lusinga. Un’illusione autodistruttiva però per il popolo d’Israele e per gli ebrei del mondo.
Il governo d’Israele persegue suoi interessi politici ; fra questi è manifesto il proposito di dividere e disarticolare la UE circa le posizioni che essa assume sul conflitto israelo-palestinese e sui rapporti con l’Iran “corteggiando” i paesi del gruppo di Visegrad e altri retti da governi nazional-populisti come l’Austria e l’Italia. Ma vi è anche un’affinità elettiva sul piano ideologico fra il Likud di Netanyahu e alcuni di questi movimenti che esaltano l’identità etnica, il rifiuto degli immigrati, l’intolleranza del diverso.
L’ attrazione per tali movimenti nazionalisti e antieuropei è però autodistruttiva per Israele : l’ Europa resta primo partner commerciale e principale fornitore di fondi di ricerca per università e imprese israeliane. Un’Europa attraversata da nazionalismi e dominata da Le Pen, Melanchon, il laburista Corbyn, la Lega di Salvini non sarebbe certo benefica per Israele.
Anche sulla banalizzazione della memoria della Shoah e di negazione delle nefaste forme di collaborazionismo di paesi europei con la macchina genocida del nazismo vi è oggi un atteggiamento ambiguo di Israele che alla ricerca di alleanze con alcuni di quei paesi cede a lusinghe revisioniste. Clamorosi negli ultimi mesi a questo proposito i contrasti fra l’istituto di Yad Vashem e il governo Netanyahu circa gli atti assolutori di quest’ultimo rispetto a Polonia e Ungheria. Gli storici di Yad Vashem hanno condannato il documento congiunto firmato da Netanyahu e dal Primo ministro Polacco Morawiecki in quanto contiene “gravi errori e distorsioni” circa gli atti di cittadini polacchi collaborazionisti con i nazisti e per simili motivi il progettato Museo di Budapest che esonera del tutto il regime fascista di Horthy dalle sue colpe nello sterminio degli ebrei ungheresi.
Il Presidente israeliano Reuven Rivlin ha affermato, in forte dissenso con gli atti del governo, in una recente intervista che “il neo fascismo è assolutamente incompatibile con i principi e valori che sono i fondamenti dello Stato d’Israele …Il fatto che il Presidente d’Israele dica ai movimenti neo fascisti “ siete persona non grata nello Stato d’Israele” è un’affermazione che combatte in maniera concreta l’antisemitismo. ” Molto netto è stato anche il Presidente della Conferenza dei Rabbini europei Pinchas Goldschmidt che in un’audizione al Parlamento israeliano ha chiesto ad Israele di interrompere le relazioni con partiti di estrema destra in Europa indipendentemente dalle posizioni che essi assumono sullo stato ebraico. Ha aggiunto che “se un partito è razzista, ostile a segmenti rilevanti della società e intollerante rispetto alle minoranze, gli ebrei pur non essendo oggetto di violenza oggi, lo saranno in un prossimo futuro.”
Per la difesa del futuro degli ebrei è più efficace combattere il razzismo e le discriminazioni rivolte oggi contro altri soggetti deboli o emarginati , non solo in virtù dei valori universalistici dell’ebraismo e dell’imperativo etico che ci viene dall’essere noi ebrei testimoni e portatori della memoria della persecuzione, ma anche perché vi è un interesse oggettivo degli ebrei nel lottare contro forme di intolleranza quand’anche non li colpiscano direttamente e immediatamente e nel vivere in società plurali ed aperte, in cui le identità, soprattutto di minoranza, siano riconosciute come legittime e rispettate. Ne è una prova la travagliata storia degli ebrei in cui troppe volte razzismo, esclusione sociale, discriminazione religiosa si sono riflessi in odio antiebraico.
Giorgio Gomel
Le uscite di Salvini appena giunto in Israele, davanti ai tunnel scavati dagli Hezbollah hanno irritato la Ministra della Difesa italiana e il vicecomandante italiano dell’UNIFIL, schierata sul confine libanese per mantenere la pace, ma più propensa a tutelare il proprio quieto vivere piuttosto che ad addentrarsi in difficili azioni di polizia internazionale volte ad impedire attacchi ed attentati che a loro volta possano suscitare l’ovvia reazione di Israele.
Naturalmente per gli ebrei ( della Diaspora e non) la presa di posizione del Ministro dell’ Interno è stata una (piacevole) sorpresa, ma al tempo stesso ha posto un problema di difficile soluzione. Come ebrei possiamo appoggiare un personaggio che nei mesi appena trascorsi ha dato prova di inclinazioni fortemente xenofobe e forse anche razziste solo perché appoggia Israele ? Credo che l’unica risposta sensata a questo dilemma possa venire dall’ insegnamento di Ben Gurion a proposito del Libro Bianco britannico che impediva l’ immigrazione ebraica nella Palestina mandataria. Affermava Ben Gurion che gli ebrei dovevano combattere Hitler a fianco della Gran Bretagna come se non ci fosse stato il Libro Bianco e combattere il Libro Bianco britannico come se non ci fosse stata la guerra a Hitler.
Penso che anche noi oggi dobbiamo appoggiare le prese di posizione di Salvini a favore di Israele, come se non avesse mai espresso idee xenofobe (o peggio) e opporci alle sue prese di posizione xenofobe (ed eventualmente razziste) come se non avesse mai appoggiato Israele.
Roberto Jona
La recente visita di Matteo Salvini in Israele – segnata, com’è noto, da forti dichiarazioni di amicizia e solidarietà verso lo Stato ebraico -, e le diverse reazioni dalla stessa suscitate, sollecitano diverse considerazioni, rinviando, soprattutto, a due dati di fondo, che, piaccia o non piaccia, paiono caratterizzare i tempi che stiamo vivendo, e su cui già abbiamo avuto modo, di recente, di formulare alcune riflessioni.
Il primo dato è che, per una lunga serie di ragioni, Israele piace oggi soprattutto ai politici di destra, mentre continua, come sempre, a essere malvisto da quelli di sinistra. Non solo: anche la stessa maggioranza governativa israeliana sembra guardare con fiducia ad alcuni politici della destra europea, gli stessi che una parte dell’opinione pubblica israeliana di sinistra mostra invece di detestare (si veda, per esempio, l’editoriale di Ha-Aretz, che ha indicato il nostro Vice-Premier, pubblicamente elogiato da Netanyahu, come persona non gradita nel Paese).
Il secondo elemento è l’evidente divaricazione, sul piano valoriale, che pare oggi percepita tra la difesa di Israele e quella dell’ebraismo in generale. Due realtà – ebraismo e Israele – che, purtroppo, vengono sempre più spesso sentite come indipendenti l’una dall’altra. Salvini e molti suoi compagni di bandiera pronunciano parole nette a sostegno dello Stato ebraico, e forti condanne della violenza terroristica araba, ma non mostrano alcun imbarazzo ad allearsi con partiti apertamente antisemiti, così come non sembrano scandalizzarsi per le innumerevoli sortire antisemite che inondano i social dei loro alleati di governo, così come per le reiterate allusioni e battutine sugli ebrei che infiorettano giornali di area a loro molto vicini.
Si tratta di due semplici constatazioni, della mera presa d’atto di due realtà su cui ci sarebbe molto da dire e da commentare, ma che, indubbiamente, esistono. Entrambe le cose – e soprattutto la seconda – sono per me motivo di allarme e preoccupazione, ma, come si dice, non si può litigare con la realtà.
Per quanto riguarda, in particolare, la persona del Ministro degli Interni, e dei suoi molti seguaci, il mio giudizio è molto chiaro, ma articolato:
Massimo apprezzamento per la sua difesa di Israele, che voglio credere sia sincera e duratura, e che mi auguro porti ad atteggiamenti coerenti su tanti fronti, a cominciare dalla posizione dell’Italia in seno alle Nazioni Unite, e al comportamento del nostro Paese nei confronti di Paesi come l’Iran, la Siria, il Libano, e di bande criminali come Hamas. È su questo tavolo che si misura l’amicizia, Signor Ministro. Comunque, La ringrazio senza riserve per le sue parole.
Allo stesso tempo, nessuno sconto, nessuna indulgenza di fronte alle ricorrenti, grevi e inaccettabili cadute di linguaggio del Vice-Premier, e alla sua amicizia nei confronti di antisemiti dichiarati. Non si azzardi mai più, Signor Ministro, a dire che ci sono dei migranti che fanno “pacchia”, o dei cittadini italiani che “purtroppo ci dobbiamo tenere”, altrimenti dirò anch’io, di Lei, che “purtroppo, ce lo dobbiamo tenere”. E, prima di accettare qualche invito a cena, ricordi la Sua visita a Yad Vashem, la cui memoria tanti Suoi amici mostrano di disprezzare.
Un giudizio articolato, dunque, come spesso impongono le cose della vita, che possono essere difficilmente valutate con la semplicità di un “like” o di un pollice verso.
Spesso, ma non sempre. Ci sono, infatti, alcune persone, e alcuni giornali, su cui non c’è proprio nulla da articolare, da modulare, da argomentare. Persone e giornali che sono quello che sono, e che su cui non ci sarebbe proprio nulla da dire, se non fosse che della loro esistenza siamo costretti, periodicamente (e mi sia consentito, in questo caso, di usare l’avverbio “purtroppo”), a ricordarci. Alla vigilia della visita del Ministro in Israele, il Manifesto ha pubblicato un ameno e delicato articoletto di Moni Ovadia, specialista della testata per le questioni ebraiche, intitolato “Salvini il sionista, perfetto portavoce di Netanyahu”, che si concludeva con questa perla: “se gli ebrei del tempo di Hitler fossero stati come gli israeliani di Netanyahu, i nazisti avrebbero progettato la Endösung? La mia risposta è: non credo”.
Semplicemente perfetto. Mai visti un opinionista e un giornale più degni l’uno dell’altro. Continuate così, compagni.
Francesco Lucrezi
(19 dicembre 2018)