Società – Quel che è mancato nell’ottantesimo
A ottanta anni dalle leggi razziste – periodo che, come è stato osservato, corrisponde a una vita intera e, dal punto di vista statistico, a tre generazioni – quell’evento terribile è stato ricordato in tutta la sua gravità. Doverosamente, come è necessario sottolineare, seppure da qualcuno – forse – un po’ ritualmente. C’è tuttavia un tema, nel discorso pubblico che ha accompagnato queste celebrazioni, di troppo poco notato e talvolta addirittura ignorato. Un tema che, al contrario di quanto impone il ricordo, andrebbe una volta per tutte dimenticato e rinnegato, e che invece è accolto dai più con indifferenza distratta, con abitudine ed assuefazione, e da altri con adesione convinta. Si tratta, puramente e semplicemente, della nozione stessa di razza, e del termine che la designa. Se è ben comprensibile, per ragioni storiche e culturali, che questo riferimento compaia – in termini negativi – nell’articolo 3 della nostra Costituzione (Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali), e in un paio di articoli della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del 1948, è meno ovvio che lo si ritrovi anche in documenti più recenti, come ad esempio nel testo della «Convenzione europea dei diritti dell’uomo» (nella versione rivista del 2010) o del «Trattato dell’unione europea» (nella versione consolidata del 2012), o che una (peraltro meritoria) struttura della Presidenza del Consiglio sia tuttora denominata «Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali». E soprattutto la razza trova spazio nelle invettive di certa politica, nei mille luoghi delle interazioni quotidiane, dalle chiacchere al bar o sull’autobus a certe furibonde esternazioni sulla rete. A ottanta anni dalle leggi razziste, insomma, parliamo ancora di razza. Sembra una cosa normale, ma non lo è. Dopotutto, la scienza non ha tardato a liquidare nozioni e concetti, elaborati magari nel corso di secoli, quando l’avanzamento degli studi ne ha mostrato l’insostenibilità. Chi, ad esempio, parlerebbe ancora di «etere luminifero» a proposito della luce, o di «flogisto» a proposito della combustione? E sul fatto che, dal punto divista scientifico e specificamente genetico la nozione di «razze umane » sia definitivamente riconosciuta come insostenibile – un concetto inventato, proprio come quello di flogisto – non ci sono dubbi. È un risultato di ricerca acquisito il fatto che nel caso della specie umana la variabilità genetica sia distribuita in modo continuo, tale cioè da non consentire l’identificazione di gruppi nettamente distinguibili l’uno dall’altro attraverso confini univoci e definitivi. Accade anzi che, posto un qualche criterio tassonomico, tale variabilità sia maggiore all’interno di gruppi presuntamente omogenei che non fra un gruppo e l’altro. Douglas Rohde, all’epoca ricercatore del Massachusetts Institute of Technology ha sviluppato nel 2003 un modello matematico (rohde-MRCA-two.pdf) dal quale risulta senza incertezze che, a condizione di risalire abbastanza indietro nel tempo (neanche troppo indietro, per la verità, in termini di storia della specie: circa tremila anni) due persone qualunque, scelte a caso fra quelle viventi oggi nel mondo, hanno necessariamente avuto un progenitore comune. Insomma, siamo tutti parenti e tutti differenti, come hanno scritto allora Alicia Sanchez- Mazas e André Langaney, due genetisti francesi, con buona pace di tutte le mitologie suprematiste. Destituita di ogni plausibilità empirica, la nozione di «razza umana» continua tuttavia a trovare ascolto. Ai margini della stessa comunità scientifica, dove in particolare a partire dagli anni ’90 si sono registrati altri estremi tentativi di riabilitazione, e nelle abitudini linguistiche e concettuali della vita quotidiana. Nell’uno e nell’altro caso essa sopravvive unicamente come costruzione ideologica, al servizio del fondamentalismo religioso (si pensi al creazionismo americano di derivazione protestante) e soprattutto come strumento di gerarchizzazione fra i diversi gruppi culturali. In effetti, fra i numerosi modelli di differenziazione razziale che sono stati storicamente proposti – e che hanno preteso di distinguere un numero di «razze» variabile da quattro-cinque fino a duecento – non è possibile rinvenirne uno solo che in termini espliciti o impliciti, non si proponga anche di suggerire un ordinamento di esse, dalla più «evoluta» alla meno e, fatalmente, da quelle «superiori» a quelle «inferiori». Le due intenzioni – la costruzione di modelli di differenziazione razziale e la gerarchizzazione delle «razze» – sono andate storicamente di pari passo, senza eccezione alcuna, e costituiscono forse la stessa intenzione. Eppure, non è per questa intenzione distorta che dalla nozione di razza occorre prendere le distanze, quanto piuttosto proprio per la sua insensatezza scientifica. La razza, come scriveva Ashley Montagu in un importante libro degli anni ’50 è un mito: ebbene la storia umana è ricca di miti, alcuni suggestivi e delicati, talvolta carichi di significato e di insegnamenti, ma a questo mito, che come diceva Montagu «è il più pericoloso della nostra epoca», è necessario negare non solo credito, ma anche linguaggio: «razza» è una parola che – semplicemente – non vuol dire nulla.
Enzo Campelli, sociologo
Pagine Ebraiche, dicembre 2018