BIOGRAFIE Gerti Frankl e Montale l’incantesimo della seduttrice segreta
Waltraud Fischer / GERTI, BOBI, MONTALE E C. / Diabasis
Capodanno a Firenze, 1928: una giovane austriaca fa un piccolo incantesimo divinatorio, col piombo fuso e l’acqua fredda, in omaggio a un’usanza del suo Paese natale ma anche di Trieste, la città dove vive. Siamo in casa del critico d’arte Matteo Marangoni, ospite una piccola compagnia di intellettuali e scrittori, e anche Gerti Frankl, in visita agli amici, ne fa parte. C’è Eugenio Montale, che sedotto dalla scena scriverà una delle sue poesie più famose, Il Carnevale di Gerti. «Se si sfolla la strada e ti conduce / in un mondo soffiato entro una tremula / bolla d’aria e di luce dove il sole / saluta la tua grazia, hai ritrovato / forse la strada che tentò un istante / il piombo fuso a mezzanotte quando/ finì l’anno tranquillo senza spari», si legge nella prima strofa. A quella poesia lei restò fedele per tutta la vita, parlandone pochissimo, custodendola come qualcosa di molto personale nel cuore di un’esistenza che ebbe momenti di trionfale leggerezza, di cultura e di tragedia. Daniele Del Giudice preparando il suo romanzo-saggio d’esordio, Lo stadio di Wimbledon, l’aveva incontrata ormai anziana (nata nel 1907, morì nel 1989), e ricorda che era ancora una grande seduttrice. Ma una seduttrice molto privata, quasi segreta. Un’ispiratrice, in quella che è stata definita la Bloomsbory triestina degli anni Venti, in contemporanea con il famoso circolo londinese di Virginia Woolf. In quella trama di rapporti al cui centro, come un ragno imprevedibile e caotico, si muoveva freneticamente Roberto «Bobi» Bazlen, il futuro creatore insieme con Luciano Foà dell’Adelphi, nacquero, per così dire, da un lato Montale e dall’altra Italo Svevo, quantomeno per ciò che riguarda il suo tardivo successo e il lancio internazionale. Gerti, elegantissima, ricca (i genitori possedevano una piccola banca a Graz), sposata con Carlo Tolazzi, ingegnere bergamasco trapiantato a Trieste, ammirata per la sua eleganza intellettuale e non solo, corteggiatissima, ne era una sorta di regina. Ma era anche ebrea, e su di lei, come su altri personaggi di questo gruppo, incombeva un destino ancora imprevedibile e spaventoso. Molto si sapeva, soprattutto dopo la biografia che Cristina Battocletti ha dedicato a Bazlen (Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, ed. La nave di Teseo) ma la reticenza di Gerti a parlare di sé aveva lasciato zone d’ombra, perfino misteri. Ora Waltraud Fischer, studiosa austriaca che vive e insegna a Trieste, le ha dedicato un libro (Gerti, Bobi, Montale e C. Vita di un’austriaca a Trieste, Diabasis) dove davvero tutto – o quasi – è riportato alla luce, grazie a una gran mole di documenti lasciati a un’amica e da questa donati all’Università di Trieste, in parte usati già per una mostra del 2005. Gerti era avanti rispetto alle pur emancipate donne della sua città adottiva. Si era sposata contro la volontà dei genitori, matrimonio clandestino a Londra; guidava fieramente l’automobile, viaggiava molto anche da sola, benché sposata, accettava la discreta corte dei suoi ammiratori, primo fra tutti Bazlen che le scriveva incessantemente parlando dei propri amori ma nello stesso tempo manifestandole un’adorazione che andava oltre l’amicizia. Se Montale visse dal ’38 con Drusilla Tanzi, la «mosca» di tante sue poesie conosciuta nel ’27 (il soprannome era stato inventato da Bazlen) quand’era la moglie dell’amico critico d’arte Matteo Marangoni (si sposarono solo nel ’62, dopo la morte di quest’ultimo), l’affascinante austriaca perse invece il marito, anche grazie a Bazlen e proprio a causa del grande amore di quest’ultimo, Duska Slavik, una giovane di condizione modesta e per nulla letterata. Bazlen – come avrebbe ricordato anni dopo Montale, era perennemente dedito a «esperimenti più o meno falliti di creare o distruggere felicità coniugali» – gliene parlò in molte lettere chiedendole di aiutarla, fino a introdurgliela in casa; risultato, esempio non raro di eterogenesi dei fini, Carlo Tolazzi se ne innamorò, lasciando la moglie e mettendo su famiglia con lei. Gerti, che amava la fotografia, scattò com’è noto l’istantanea delle gambe di una misteriosa Dora Markus; Bazlen la spedì a Montale perché ci scrivesse una poesia, e la ottenne. Il poeta non vide mai Dora Markus, e per decenni gli studiosi si sono interrogati sulla sua identità, mettendola persino in dubbio. Dalle carte emerge invece che la donna è esistita: anche lei ebrea – e austriaca – riuscì a sottrarsi alle persecuzioni e a riparare prima in Inghilterra e poi in America. Scrisse almeno due volte a Gerti, invitandola a raggiungerla. Lei però non poteva più, o non voleva. Dopo l’invasione dell’Austria doveva salvare i genitori: tentò in ogni modo di convincerli ad abbandonare Graz, senza riuscirci. E quando finalmente capirono che bisognava fuggire, era ormai troppo tardi. La bella dama divenne una combattente, a caccia di visti per far espatriare gli ebrei dall’Austria. Maneggiava denaro, corrompeva, «comprava» vite. Per i genitori arrivò fino a Mussolini, senza risultato. Dopo l’armistizio, riuscì persino a farsi assumere come interprete dal comando nazista – ma una vicina di casa la denunciò. E, alla macchia in montagna, continuò ormai senza un soldo ad aiutare chi fuggiva in Svizzera. Gli anni ormai non finivano più «senza spari». Ma la poesia rimane. Anche quella di Dora Markus, scritta in due fasi. La prima parte, del ’29, è tutta dedicata alla sconosciuta. Nella seconda, del ’39, c’è invece Gerd Franld, come spiegò il poeta stesso («Di lei e di Dora feci un unico fantasma» disse a Guido Nascimbeni, per un libro uscito nel ’69). Questi versi, peraltro notissimi: «forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: / un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!» elencano proprio i suoi oggetti di culto.
Mario Baudino, La Stampa, 17 dicembre 2018