Diaspora…
Al termine del primo libro della Torà, il racconto biblico ci presenta alcuni eventi che, da un lato, costituiscono la conclusione delle complesse vicende che avevano segnato la famiglia di Giacobbe e che, al tempo stesso, si possono leggere come una premessa, addirittura come allusione alla storia del popolo d’Israele, a partire dall’esilio e dalla successiva riduzione in schiavitù in Egitto, fino a dinamiche e caratteristiche che più volte si sono riproposte nella storia ebraica, fino ai nostri giorni.
Giacobbe, sentendo avvicinarsi la sua ultima ora, manda a chiamare il figlio Yosef e gli chiede di giurargli che non lo avrebbe sepolto in Egitto, bensì nella tomba di famiglia, a Khevron, nella terra di Kenaan; Yosef promette di adempiere alle volontà del padre, ma questi rinnova la richiesta di giuramento. Qual è il motivo di questa insistente richiesta di giuramento da parte di Giacobbe? Diversi commenti spiegano che Giacobbe aveva ben compreso quali fossero le reali condizioni in cui si muoveva Yosef alla corte del faraone ed i limiti che questa imponeva, limiti di cui forse lo stesso Yosef non era fino ad allora pienamente consapevole. In sostanza il giuramento era uno strumento di convincimento che Giacobbe riteneva utile, forse indispensabile per Yosef, nel momento in cui avrebbe dovuto chieder al faraone l’autorizzazione a portare in sepoltura a Khevron le spoglie del padre. Le cose andarono poi proprio come Giacobbe aveva previsto, la questione del giuramento diviene centrale nell’adempimento delle ultime volontà del patriarca; subito dopo la morte di Giacobbe, Yosef introduce la richiesta delle esequie del padre in Chenaan attraverso l’intercessione di alti funzionari ,ai quali si rivolge dicendo “ mio padre mi fece giurare…seppelliscimi nella tomba in terra di Chenaaan!”, il faraone risponderà “và, seppellisci tuo padre come ti fece giurare”. Non è un semplice particolare: Yosef deve giustificare al faraone il fatto che lui, uno fra i più alti dignitari e consiglieri del re, intendeva seppellire il padre in terra straniera, in sostanza è la prima volta che un ebreo si trova a dover dare spiegazioni su quella che viene interpretata come possibile “doppia lealtà”, è il primo manifestarsi del sospetto che il legame di un ebreo con la propria identità e con la terra promessa dal Signore possa essere interpretato come mancanza di rispetto verso la civiltà locale o addirittura nascondere recondite malevole intenzioni nei confronti del paese in cui pure l’ebreo vive e per il cui bene si impegna. In quella circostanza il dovere di rispettare il giuramento fatto al padre prevale sui nascenti sospetti, tuttavia Yosef e la sua famiglia, nella pur privilegiata condizione in cui si trovavano in Egitto, incominciano a sperimentare quella “libertà condizionata” che, in qualche modo, è parte della vita dell’ebreo nella diaspora, infatti il testo ci ricorda che quando si mettono in viaggio per le esequie verso la terra di Chenaan, devono lasciare in Egitto “i bambini, il gregge e le mandrie”. Perché mai avrebbero dovuto portarsi pecore e buoi al funerale? E anche i bambini, non era certo indispensabile portarli; in realtà questi “bambini, gregge e mandrie” lasciati in Egitto, erano una sorta di pegno, di garanzia che Yosef aveva dovuto lasciare al faraone per assicurare che lui, ministro del re, sarebbe fedelmente tornato al suo posto in Egitto, una volta portata a termina le missione del funerale. Mentre ci descrive la realizzazione delle ultime volontà del patriarca Giacobbe, il suo tenace, indissolubile legame con la terra promessa dal Signore, la Torà ci mostra anche cosa si celava dietro l’apparente posizione di potere e privilegi che aveva conseguito Yosef: una rete di sospetti, di convenzioni che fortemente ne limitavano la libertà effettiva e che, dopo la sua morte, avrebbero lasciato spazio alla crescente onda di pregiudizi, fino a sfociare nella persecuzione, nella schiavitù, nei tentativi di stermino che saranno narrati nel Libro di Shemot, l’Esodo.
L’incontro di Giacobbe con Yosef, oltre alle disposizioni per la sua sepoltura, aveva avuto anche un altro aspetto: la benedizione dei figli di Yosef, Efraim e Menashè, e la loro inclusione nel novero dei figli stessi di Giacobbe, che avrebbero dato luogo alle Dodici Tribù d’Israele; il patriarca rivolge la sua benedizione ai figli di Yosef con queste parole “Possa il popolo d’Israele dare la benedizione dicendo – Il Signore Ti faccia diventare come Efraim e come Menashè”. Perché Giacobbe auspicava che la sua benedizione ai nipoti potesse diventare modello per tutte le benedizioni che i suoi discendenti avrebbero rivolto a figli e nipoti? Perché Efraim e Menashè, pur essendo cresciuti alla corte in Egitto, come figli di un ministro del faraone, erano rimasti “figli di Yosef”,fedeli alle loro origini nella famiglia di Giacobbe, ne avevano conservato la fede nel Signore, si potrebbe dire che erano esteriormente egiziani negli abiti ma assolutamente ebrei nel comportamento. Giacobbe esprime l’augurio che in ogni generazione, ovunque e comunque si trovassero, i suoi discendenti potessero rivolgere la benedizione a figli e nipoti che sarebbero rimasti loro vicini, nei sentimenti e nel modo di vivere, proprio come Efraim e Menashè. Forse anche a condizione di non perdere di vista, così come aveva dovuto sperimentare personalmente Yosef, le insidie, le illusioni e i pericoli che sono insiti anche nel migliore e più accattivante galut, che rimane diaspora d’Israele.
Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova
(19 dicembre 2018)