Machshevet Israel – Viaggiare a occhi chiusi

GiulianiVi sono due modi per viaggiare a occhi chiusi. O standosene fermi in casa e immaginando cose che non si sono mai vedute; oppure viaggiando realmente ma tenendo chiusi gli occhi sì da non vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti gli altri, che tengono gli occhi aperti (seppur vedere non equivalga sempre a capire). È questa la curiosa ma acutissima chiave di lettura offerta da uno storico-letterato come Alberto Cavaglion nel libro “Verso la Terra Promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini” (Carocci, 2016). L’ho appena letto, con quasi tre anni di ritardo. Non perché non l’avessi notato prima; anzi, l’avevo accantonato apposta: intuivo che queste pagine avrei dovuto leggerle con attenzione per assaporarle. Cavaglion ha una scrittura incalzante, piena di ‘fatti’, dove non v’è un aggettivo fuori posto o che non sia ponderato; soprattutto, lascia al lettore lo spazio per proprie conclusioni (è lo stile di Primo Levi, che qui rivive al meglio, con la giusta mistura di erudizione e di captatio cordis). Qui lo storico si rivela un narratore di narratori, e il letterato indaga da storico, la cui ebraicità piemontese – schiva e ironica, dolce e determinata, tagliente e alla mano – mi ricorda anche il meglio, umano e intellettuale, di Paolo De Benedetti. Il filo rosso di questi capitoli è appunto ‘il racconto di viaggio’, nel XIX e XX secolo, verso la terra che quasi tutti chiamano ‘santa’ o ‘promessa’, seppur per ragioni diverse e in divergenti prospettive. Ma su questo filo della ri-narrazione, il vero focus sono i viaggiatori – uomini e donne, ebrei e cristiani, religiosi e laici – con i loro pensieri e le loro scelte ideologiche, dei quali Cavaglion ci offre brevi ma intensi medaglioni proprio nell’istantanea che li coglie ‘in viaggio’, reale o immaginario che sia.
In questa galleria, tra molte deliberate cecità, emergono alcune voci singolari. La prima è quella del laico Angelo De Gubernatis, funzionario del governo sabaudo, che visita la “Terrasanta”, lembo di terra all’epoca ancora ottomano, nel 1899 e vede i primi segni del cambiamento in corso per mano ebraica. La sua cronaca si chiude con queste parole: “E’ un’indegnità degli storici del cristianesimo l’aver accusato prima e poi fatto perseguitare come deicida un intero popolo (…) non pare né lecito né umano né cristiano il continuare a lanciare contro il popolo ebreo la maledizione del deicidio… è tempo dunque che il cristianesimo cessi di fare la guerra al giudaismo”. Ripeto: sono parole scritte nel 1899, non nel 1965 (quando dal Vaticano II esce Nostra Aetate), mentre viva è l’eco dell’affaire Dreyfus e il papa sta per condannare i suoi per modernismo… Non meno originale è la voce di Cesare Angelini, un prete-poeta pavese, che fu una specie di anti-Papini e che quel modernismo scomunicato da Pio X aveva invece respirato a pieni polmoni, pur tra le nebbie del giansenismo lombardo-manzoniano. Farà due viaggi in Palestina, nel 1932 e nel 1937, da buon cattolico ma senza paraocchi, “con sguardo inclusivo”: vede gli arabi, vede gli ebrei e vede la frammentazione incresciosa del cristianesimo mediorientale. E molti anni dopo scriverà: “Se io non fossi cristiano (ma Dio m’aiuti a esserlo un po’ più e meglio), sceglierei d’essere ebreo”. Viaggia per vedere, non fa un viaggio immaginato o piegato alle categorie teologiche maggioritarie.
Il terzo caso è quello di un intellettuale-viaggiatore ebreo oggi dimenticato, il triestino Giorgio Voghera. È viaggiatore perché fa ‘andata e ritorno’: dopo la bufera della guerra, dal kibbutz torna a vivere in Italia facendo jeridà. Alberto Cavaglion lo riporta vivo e attualissimo tra noi, rivisitando il suo diario apparso con il titolo “Quaderno d’Israele” nel 1967 (con prefazione di Claudio Magris). Scrittore raffinato, capace di sorprendenti metafore e a suo modo psicoanalista – dove la psiche da analizzare è la propria e anche quella di ogni compagno di viaggio, ebreo o arabo che sia – Voghera offre una lettura introspettiva dello stesso sionismo, lettura che all’epoca non piacque a molti e forse non piacerà ancora oggi. Qui è evocato il suo pessimismo esistenziale (così triestino, così michelstaedteriano), che spiegherebbe quella “legge dell’antiselezione etica degli individui, valida per il sionismo come per qualunque ideologia. Amava ripetere che hanno maggior possibilità di salire in alto e occupare posti di comando gli individui amorali (…) Tanto era darwiniano – dice Cavaglion – nello smascherare il cinismo del potere, altrettanto era spietato nel risvegliare i dormienti dai loro sogni. Non credeva alle utopie palingenetiche”. Ma forse i suoi limiti caratteriali, suggerisce Cavaglion, lo aiutarono ad adottare uno sguardo inclusivo della realtà, a vedere oltre le passioni o i pregiudizi. Vorrei continuare a spigolare ma bastino questi tre esempi, diversissimi tra loro, per apprezzare le piste di pensiero ora leggero ora grave ma sempre audace (come il pensiero dev’essere) che da questo specifico genere letterario si dipanano, attingendo sì a vissuti e racconti individuali ma che spesso riflettono ed esemplificano psicologie e prospettive collettive. Piste meta-letterarie che fanno pensare.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI