Poesia – L’uomo che sapeva tutto
Avraham Ben-Yitzhak / POESIE / Portatori d’acqua di Pesaro
Provate a immaginare un uomo, un poeta, che nell’arco della sua intera vita pubblica undici poesie. Undici poesie soltanto. Eppure questo corpus così esiguo acquisirà un’importanza eminente nel panorama mondiale. E il suo autore diventerà, suo malgrado, una grande figura romanzesca, quasi un culto a cui hanno tributato la loro venerazione alcuni fra gli intellettuali più blasonati del Novecento. Benvenuti nel paradosso del dottor Sonne. Che all’anagrafe si chiamava Abraham Sonne, come autore si firmerà col nome di penna Avraham Ben-Yitzhak ma poi, una volta dismessi i panni da poeta, sarà conosciuto da tutti come, appunto, “il dottor Sonne”. Nato in Galizia, allora periferia da basso impero (quello austro-ungarico), nel 1883, Sonne proveniva da una borghese famiglia ebraica. Schivo e riservato, si fece notare fin da giovane. Nella comunità ebraica del suo paesino natale, Przemysl, era in atto un forte scontro tra sionisti, che invocavano un ritorno degli ebrei in Palestina, e territorialisti, che puntavano all’insediamento anche in altri territori in parti diverse del mondo. Durante un dibattito, dopo che l’esponente di quest’ultima fazione, noto e carismatico, ebbe finito di esporre la sua tesi, un giovincello, sconosciuto a tutti, si alzò in piedi. Cominciò a parlare: in un tedesco elegante e ricco nello stile, si mise a confutare una a una tutte le tesi del relatore, rilevandone l’inconsistenza e l’irrilevanza, cintando a memoria dati, statistiche, esempi dalla storia degli insediamenti di altre nazioni, per poi proseguire – in un silenzio irreale che era calato nella sala – discettando di economia e di teoria politica fra lampi di genio e ironia folgorante. Tutti, ammutoliti, iniziarono a chiedersi chi fosse e da dove venisse quel diavolo d’un ragazzetto. Dietro quell’aria schiva albergava una grande promessa. Scriveva già poesie, accolte con stupore e grande, unanime plauso. Amici, conoscenti e lettori erano tutti d’accordo: sarebbe diventato un grande poeta. Ma lui, Avraham Ben-Yitzhak, avrebbe deluso tutti. Ripetutamente. All’età di quarantacinque anni aveva già smesso di scrivere. Il poeta scompariva per lasciare il posto alla leggenda: ad Avraham Ben-Yitzhak subentrava il dottor Sonne. Il primo prendeva posto sull’Olimpo delle lettere: gli erano bastate quelle undici mirabili composizioni per essere considerato il primo poeta in lingua ebraica dell’era moderna. Il secondo cominciò a sedersi, tutti i giorni, al Cafe Museum di Vienna col suo sguardo ascetico e il viso emaciato, sorprendentemente identico a quello dello scrittore Karl Kraus, tanto da sembrarne il gemello. E da lì, quest’uomo così riservato ma dotato di un carisma singolare, che aveva scritto poco e controvoglia, impressionava – per la sua erudizione, il suo spirito e soprattutto per i suoi silenzi epici intellettuali come Hermann Broch, Elias Canetti, James Joyce, Soma Morgenstern, Arthur Schnitzler, Robert Musil, Hugo von Hofmannsthal, il musicista Arnold Schönberg, il pittore Georg Merkel. Ora finalmente in Italia arriva un libro, splendido, che raccoglie questa vicenda biografica, le poesie e tutti gli abbozzi e frammenti ritrovati: lo pubblica la giovane casa editrice Portatori d’acqua di Pesaro, nell’ottima cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen. Il libro contiene fra l’altro la testimonianza della poetessa israeliana Lea Goldberg, amica di Sonne, la quale rivela qui per la prima volta notizie inedite su di lui. Non sono soltanto le sue poesie in ebraico ad aver contribuito alla costruzione del “mito”: versi di rara bellezza, distillati con perizia e grazia inedite. Il vocabolario attinge alla Bibbia e i componimenti trattano principalmente della natura – non sarebbe peregrino andare a cercare proprio qui la scintilla che balenò nella mente di Walter Benjamin quando formulava il concetto di “natura mute”. Poesie di una chiarezza di pensiero cristallina e sbalorditiva, che Canetti definì “glaciale”: «È la chiarezza di chi, dovendo molare vetri trasparenti, non è contento finché non scompare ogni macchia opaca». Come scrive Lea Goldberg: «Fu il primo poeta ebraico, il cui orologio non indicava l’ora soltanto agli ebrei, ma scandiva il tempo della letteratura mondiale». A partire dagli anni Venti non volle più sapere nulla delle sue poesie: non ne parlava e, anzi, ricordarle gli causava sofferenza e disprezzo, come se fossero un passato dal quale si era definitivamente congedato. Il fatto è che ogni persona che ebbe la buona sorte di frequentarlo ne rimase così tanto affascinata da eleggerlo a modello irraggiungibile. «Anche per lei il dottor Sonne è stato quello che è stato per me? La persona più importante della mia vita?», chiederà Elias Canetti a Goldberg nel 1951, dopo la morte del poeta. Secondo Canetti Sonne «sapeva tutto, ma non teneva niente per sé come proprietà personale. Aveva letto tutto, ma non l’ho mai visto con un libro in mano. Era lui stesso la biblioteca che possedeva. Dava l’impressione di aver già letto da tempo tutto ciò di cui si parlava». Conosceva la Bibbia al punto da poterla recitare a memoria, in ebraico, interamente, dall’inizio alla fine e parola per parola, senza mancare nemmeno un’intonazione. Un giorno sedeva a un bar con Lea Goldberg e alla radio diedero una notizia su Königsberg. A Sonne venne in mente Kant, che lì era nato e vissuto. «Ricordi quanto è bello il trattato di Kant Per la pace perpetua?», chiese all’amica. E iniziò a declamarlo, in tedesco, a memoria. La sera, rientrata, l’amica curiosa prese il libro di Kant per verificare: aveva recitato intere pagine di prosa senza tralasciare una sola parola. Questo era il dottor Sonne: un uomo coltissimo di fronte al quale si avvertiva «quella superiorità intangibile», secondo Canetti, che faceva sì che «quando aveva esaurito un argomento ci si sentiva illuminati e appagati, era una pagina chiusa, qualcosa su cui non si ritornava più perché non ti sarebbe stato nient’altro da dire». Poteva parlare con rigore e sapienza delle cose più banali – che si trattasse di miele, vino, tessili, pellame o del modo di affumicare il pesce – con una precisione stupefacente, come se non si fosse occupato d’altro in tutta la sua vita. Ecco allora ancora Canetti, definitivo: «Ciò che Sonne aveva da dire non era un giudizio sulle cose, era la legge delle cose». Lasciò l’Austria nel 1938 per quello che sarebbe poi diventato lo Stato di Israele. E qui visse fino al 1950, quando morì di tubercolosi, all’età di sessantasei anni, in una casa di cura vicino a Tel Aviv. Negli anni Trenta aveva visto prima e meglio di tutti quanto stava per accadere: aveva previsto la guerra con tutto il suo carico di morte e sangue – come un profeta, ma a differenza dei profeti non voleva aver ragione annunciando il peggio, anzi «avrebbe dato tutto, fino all’ultimo dei suoi respiri, per non aver ragione». E per molti, come per Canetti, fu una sorta di messia, giunto per redimere dal male. E, ancora un paradosso, lo faceva ammaliando tutti con il silenzio. I suoi silenzi, lunghi, arrivavano all’improvviso e, come ricorda Goldberg, «avevano il potere di zittire una brigata di persone particolarmente esuberanti». Una volta, durante uno di questi momenti di silenzio duro e renitente, l’amico Asher Beilin se ne uscì fuori, fulminante «Bene, adesso magari possiamo tacere su un altro argomento?».
Marco Filoni, Il Venerdì, 25 dicembre 2018