Milah, atto medico o religioso?

Il recente tragico episodio accaduto in un centro di accoglienza alle porte di Roma in cui un bambino nigeriano di due anni è morto e il fratellino è rimasto gravemente ferito a seguito di un intervento di circoncisione rituale scuote le coscienze di tutti. Ancor più di coloro che hanno vissuto in prima persona la nascita 40 anni fa esatti del Servizio Sanitario Nazionale nel segno della universalità, uguaglianza e solidarietà; tutela della salute come diritto del cittadino e interesse della collettività. L’etica ebraica insegna a riguardo.
Qualcuno accerterà le responsabilità di quanto accaduto ma nel dibattito generale, anche interno al mondo ebraico, si pone con forza il tema di come impedire che un segno distintivo dell’identità di molti popoli si trasformi in tragedie. Il Dott. Giorgio Mortara, medico e vicepresidente dell’UCEI, su Pagine Ebraiche del 24 dicembre scorso fa una puntuale riflessione in difesa del diritto alla libertà religiosa e di uno dei suoi principali simboli, il brith milah. Il suo ragionamento si fonda sul presupposto che l’intervento del mohel non si sostanzia in un atto medico bensì in un “atto di natura esclusivamente religiosa”. Esistono numerosi pronunciamenti di professionisti, ordini dei medici, società scientifiche e comitati per la bioetica che riconoscono la liceità della circoncisione rituale maschile anche se non sono concordanti nel collocarla al di fuori della esclusiva competenza medica. Anche la magistratura si è espressa avendo presente il particolare significato religioso e identitario della milah all’interno della cornice delineata dalla Costituzione e dall’Intesa fra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche. In tale contesto non vi sono incertezze sul riconoscerne la valenza religiosa e la conformità rispetto all’ordinamento giudiziale italiano. Peraltro le sfumature espresse dal Comitato Nazionale di Bioetica lasciano margini di valutazione soggettiva in merito alla natura medica dell’intervento. Valutazione soggettiva che potrebbe avere un peso all’interno di singoli procedimenti giudiziari. Il Dott. Mortara nel citato articolo fa riferimento alla istituzione di un albo dei mohalim frutto di un’intesa raggiunta fra UCEI, ARI (Assemblea rabbinica italiana) e AME (Associazione medica ebraica) nel settembre 2017. Pur non prevista dalla legge nazionale, l’istituzione di un albo del genere rappresenta un’importante svolta tesa a selezionare i professionisti sulla base, anche, delle capacità professionali. Fra i requisiti richiesti in aggiunta alla condotta religiosa ebraica e l’iscrizione ad una Comunità ebraica vi è quello di possedere esperienza pratica in materia e di rispettare specifici protocolli operativi. Ancor più efficace è l’aver stabilito che “l’abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo costituisce titolo preferenziale”. Titolo preferenziale non requisito imprescindibile.
Possiamo a lungo disquisire sulla definizione di atto medico che mi sembra riduttivo circoscrivere al mero fine terapeutico ma vorrei a riguardo seguire il percorso delineato dal Dott. Mortara.
1) prima di procedere il mohel deve visitare il neonato per verificare le condizioni di salute, informare i genitori delle modalità di circoncisione e riverificare assieme al pediatra le condizioni di salute del bambino,
2) deve raccogliere il consenso informato da parte di entrambi i genitori,
3) durante la procedura deve attuare tutte le precauzioni e le norme al fine di garantire la sicurezza per i neonati (asepsi, controllo sanguinamento ecc.), utilizzo di strumenti sterili o monouso. Dopo la procedura deve garantire la reperibilità nelle 24 ore successive, seguire il bimbo fino a cicatrizzazione avvenuta e completa guarigione, tenere un registro delle circoncisioni con schede che attestino il consenso ricevuto e il rispetto di tutte le norme e condizioni igienico sanitarie ed eventuali complicanze.
Mi vengono spontanee alcune domande a riguardo. La visita preventiva e il consulto col pediatra non sono atti medici? Che tipo di informazione va data ai genitori per ottenerne il consenso se non quella sul tipo di intervento e sui rischi connessi allo stesso? Quali sono i soggetti che, per percorso di studi ed esperienza professionale hanno conoscenza della natura dei rischi sanitari (tutti i rischi!) legati ad un intervento su un neonato e capacità di trasferire le informazioni a persone di qualsiasi livello culturale? La reperibilità nelle 24 ore successive all’intervento per eventuali emergenze non rafforza ancor di più la connotazione medica dell’intervento? Seguire il “paziente”, redigere “registri operatori” e attestare (certificare?) il rispetto delle norme igieniche spetta a chiunque, ancorché adeguatamente formato, o investe direttamente la competenza del medico?
Poco importa se a porsi queste domande è il sottoscritto ma se un giorno se le ponesse un magistrato?
Un altro aspetto che a me pare assolutamente ignorato riguarda l’ambiente nel quale eseguire la milah indipendentemente dal professionista incaricato. Di questo non vi è alcun riferimento nell’intesa sull’istituzione dell’albo dei mohalim. Esiste almeno dalla prima metà del 1800 una diffusa e ben consolidata conoscenza sui rischi di contaminazione degli ambienti e conseguentemente di trasmissione delle infezioni. Coerentemente vi è un’imponente disciplina nazionale e regionale che riguarda gli ambienti nei quali vengono svolte attività sanitarie di qualsivoglia natura compresi quelli dove effettuare prestazioni di minore invasività. Forse non è sufficiente che il mohel attesti il rispetto delle norme cui lo stesso si attiene ma sarebbe opportuno che anche il contesto attorno a lui ne favorisse la pratica effettiva. Le Comunità ebraiche potrebbero svolgere un ruolo in tal senso?

Franco Ventura, medico