Il segno di Amos Oz
Il segno delle parole scritte e pronunciate nel corso degli anni dallo scrittore israeliano Amos Oz rimarranno un lascito fondamentale per la cultura internazionale. Tanti i contributi che nel corso degli anni su queste pagine hanno fatto riferimento al grande autore israeliano, scomparso a Gerusalemme all’età di 79 anni. Di seguito, una breve raccolta.
Per Israele
Chi ama Israele per quello che è oggi – un Paese democratico, che consente alle organizzazioni non governative e in favore dei diritti umani di operare liberamente – non può fare a meno di adoperarsi perché questo stato di cose non cambi. In questa ottica si colloca la decisione presa dallo scrittore Amos Oz – da lui stesso definita dolorosa – di non partecipare a iniziative in suo onore nelle ambasciate israeliane. Una decisione, come da lui dichiarato esplicitamente, a favore di B’Tselem, il “Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati”, organizzazione fondata nel 1989 da un gruppo di accademici, avvocati, giornalisti e membri della Knesset che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani nei territori occupati e informare il pubblico e i politici israeliani. Il nome (letteralmente “a immagine di”) deriva dal verso della Genesi (1, 27) sulla creazione dell’uomo ed è sinonimo di dignità umana.
La decisione di Amos Oz deve essere letta nel contesto della politica israeliana di questi ultimi giorni: molti, infatti, hanno interpretato il provvedimento approvato dal governo israeliano sull’obbligo delle ong di dichiarare i propri finanziatori come un mezzo per delegittimarle e un tentativo di imbavagliarle, anche perché c’è chi denuncia una mancanza di simmetria nel provvedimento, che discriminerebbe alcune ong rispetto ad altre (quelle che sono finanziate dall’estero da privati). Non spetta a me trattare la questione in modo esauriente, e certo non ho la competenza per dire quanto questi timori siano fondati, ma vorrei sottolineare che la decisione di Amos Oz si inserisce in questo contesto. Dunque, non una decisione contro ma una decisione a favore. Non contro Israele, ma per Israele come è oggi e come è stato finora, perché non diventi una cosa diversa. C’è chi ritiene che le preoccupazioni di Oz siano infondate, ma c’è anche – e forse talvolta tendiamo a dimenticarlo – chi realmente auspica una cosa diversa, uno Stato non democratico e i cui cittadini non siano tutti uguali. Posizioni minoritarie? Io credo di sì, ma spetta a tutti noi che amiamo e sosteniamo Israele come Stato ebraico e democratico fare in modo che restino tali.
Anna Segre, insegnante
(1 gennaio 2016)
…rialzarsi
Lo scrittore Amos Oz ha pronunciato l’altro giorno una frase che qui riporto a memoria e su cui vale la pena di riflettere. “Se cado per la strada in un qualunque paese del mondo c’è il rischio che la gente mi passi accanto senza reagire. Ma se cado per la strada in Israele, immediatamente ci sarà qualcuno che mi aiuterà a rialzarmi. Per questo, se devo cadere per la strada, preferisco cadere per la strada in Israele. Anche se poi la persona che mi ha aiutato a rialzarmi, riconoscendomi, mi farà lo sgambetto e mi farà cascare di nuovo. Perché so che immediatamente dopo un’altra persona mi aiuterà a rialzarmi. E per questo Israele è il paese in cui io amo vivere”.
Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
(19 febbraio 2015)
Ride Amos Oz. È abituato a guardare i salotti dal mondo e non il mondo dai salotti. Da Israele guarda l’amata Europa delle sue origini remote, dei suoi sogni infantili, la “landa incantata di campanili e piazze lastricate di antiche pietre, tranvai e ponti e chiese turrite, villaggi sperduti, sorgenti benefiche, boschi, nevi e pascoli” di cui parla in Una storia di amore e di tenebra. “L’Europa, questo grande salotto, è come un’arcigna istitutrice vittoriana che punta il dito – dice – vuoi contro gli uni, vuoi contro gli altri. È il suo inguaribile vizio”. Ride perché è capace di guardare con umorismo – dote che lo contraddistingue come scrittore e come uomo – all’ingenuità di quest’istitutrice.
Purtuttavia gli piace stare qui. Nei suoi romanzi definisce il suo rapporto col vecchio continente “un amore non corrisposto”. In particolare, negli anni della maturità, ha avuto modo di conoscere il belpaese, nel quale ha anche scelto di trascorrere alcune vacanze. Da poco ripartito da Napoli, lo incontriamo in Piemonte, intento a visitarne alcuni tra i luoghi più significativi. La fondazione torinese che gli ha assegnato il premio Salone del Libro 2010 ha organizzato una lunga serie di incontri con gli studenti di tutta la regione.
Si trova bene, signor Oz, in Italia?
Eccome, certo che mi trovo bene. Mi sento a casa. Gli italiani sono gente di cuore, dal temperamento caldo. Sono passionali, ma anche argomentativi. Sono edonisti e materialisti. E poi sono dei terribili guidatori, davvero spericolati. Come potrebbe un israeliano non sentirsi a casa?
Davvero Lei nota tante somiglianze tra il suo paese e il nostro?
Come no! Israele sembra un film di Fellini. È una schiamazzante collezione di argomentazioni, in cui vige un disordine mentale consolidato. In Israele ci sono circa sette milioni e mezzo di cittadini, sette milioni e mezzo di primi ministri, e almeno altrettanti profeti. Sempre, tutti, calorosamente in disaccordo. Lei non potrebbe fare la coda per l’autobus senza venir coinvolto in un seminario di strada, in cui tutti parlano e parlano, pensando di saperne più degli altri, e nessuno che ascolti. Nel frattempo si cerca di saltare la fila. È davvero uno spettacolo divertente. C’è una vena di anarchia, in tutto ciò, e a me piace. È qualcosa che fa parte del retaggio culturale dell’ebraismo.
Leggendo i suoi libri, non si direbbe che Lei è uno che non ascolta gli altri.
Vero, ma mi ritengo un’eccezione. In fondo si tratta della mia professione, è così che mi guadagno la pagnotta.
Ravvisa altri parallelismi fra i nostri due paesi?
Credo che condividiamo il problema di una classe dirigente fondamentalmente rozza, miope, sovente inadeguata a gestire le sfide del paese. Ma, quel che è peggio, corrotta. C’è da stupirsi che le nostre due economie prosperino, è un miracolo.
Guardi che da noi non si naviga nell’oro, anzi.
No, ma siete ancora un paese ricco.
Uno dei settori più colpiti dalla crisi economica, in Italia, è quello della cultura e dell’istruzione. La nostra università pubblica è in ginocchio. Cosa ne pensa?
Proprio a questo mi riferisco quando parlo di rozzezza e miopia della classe dirigente. Non conosco nel dettaglio la situazione italiana, ma posso dire che anche in Israele il governo ha ridotto sensibilmente il budget destinato alla scuola, alla scienza e alla ricerca. Il risultato è che molti dei nostri giovani talenti scelgono di emigrare all’estero. Si cerca di far passare l’idea che la conoscenza è un tema di sinistra, mentre invece è il maggiore dei beni comuni. La ricchezza di un paese risiede innanzitutto, per non dire esclusivamente, nelle menti dei suoi cittadini.
Come ci sta confermando, Lei è notoriamente molto critico nei confronti delle scelte politiche di Israele. Si definirebbe un sionista?
Senza alcun indugio.
Ci spiega meglio?
Sionismo è un termine ombrello, significa molte cose diverse. Ci sono sionisti di ogni tipo: sciovinisti, religiosi, marxisti, nazionalisti… il sionismo in cui mi riconosco io è molto semplice, lo posso riassumere dalla A alla Z in una sola frase: credo che gli ebrei, come ogni altro popolo, abbiano diritto all’autodeterminazione.
Ebreo secolare, così si definisce Amos Oz. Cosa rimane dell’ebraismo se gli sottraiamo la religione?
La religione, a parer mio, è solo un aspetto dell’ebraismo, non l’ebraismo tout court. Esso è piuttosto una civiltà, un complesso e intrecciato patrimonio di cultura, lingua, letteratura, gastronomia e filosofia. Non c’è alcuna contraddizione nell’essere un ebreo non religioso.
Dopo aver passato gran parte della sua vita in un kibbutz, cosa le sembra che sia rimasto, oggi, in Israele, dello spirito originario dei kibbutzim?
Indubbiamente c’è stato un grande cambiamento. I padri e le madri fondatori erano degli idealisti, diciamo pure che erano molto ideologizzati. Fecero dei grandi sacrifici, lavorarono duramente e diedero vita ad un movimento fantastico, ma molto dogmatico, restio alla mentalità del compromesso, a me tanto cara. La seconda e la terza generazione sono divenute più flessibili e tolleranti, perciò hanno reso l’ambiente dei kibbutzim più vivibile e ospitale, più umano.
Molti dissero che i kibbutzim furono l’unico esperimento riuscito di socialismo. È ancora vero?
Guardi: un giorno Henry Kissinger chiese a Mao Tse Tung cosa ne pensasse della rivoluzione francese. Il Grande Timoniere, com’era chiamato il presidente della Cina, gli rispose che era passato troppo poco tempo per giudicare.
Anch’io non mi sento di dare un giudizio definitivo. Mi associo al filosofo Martin Buber che ci andò cauto: non si può dire che i kibbutzim siano un esperimento fallito. Se ci incontreremo fra qualche generazione saprò darle una risposta più precisa.
Mi perdoni la curiosità: perché ha scelto Oz, che significa coraggio, come nome d’arte?
Non è un nome d’arte, è quello scritto sul mio passaporto. Quando avevo quattordici anni mi sono ribellato a mio padre, ho cercato di non essere tutto ciò che era lui. Viveva in una città e io mi sono trasferito in un kibbutz, era un intellettuale e io mi sono messo a guidare trattori, era di destra e io sono diventato socialista. Era anche un uomo piuttosto basso: io ho cercato di diventare alto, ma con scarsi risultati. Cambiare cognome fu parte di quella mia ribellione giovanile.
Proprio lei, il fautore del compromesso? Allora non sempre funziona quella strategia…
Sempre, eccezion fatta per due casi. Il primo è l’aggressione: Hitler, Stalin, Mussolini o chiunque aggredisce con la forza va fermato con la forza. Il secondo sono le idee. Idee diverse non devono per forza giungere ad un compromesso, è sufficiente che imparino a coesistere.
Manuel Disegni
(2 novembre 2010)
Periscopio – Ebrei e parole
Il libro “Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica”, scritto congiuntamente da Amos Oz e sua figlia Fania Oz-Salzberger (storica di grande statura, docente presso l’Università di Haifa), recentemente pubblicato in Italia dalla Feltrinelli, offre un’analisi suggestiva, acuta e originale della vexata quaestio di cosa significhi, ieri e oggi, ‘essere ebreo’. Un’investigazione di ampio respiro, improntata a leggerezza, ironia e sense of humour, che è anche una sorta di storia universale degli ebrei, considerata dal particolare punto di vista del rapporto privilegiato del ‘popolo del Libro’ con la scrittura. Un rapporto che, secondo gli autori, rappresenterebbe la principale chiave interpretativa del controverso problema identitario: perché sarebbe proprio intorno a tale rapporto che tale identità, da sempre, si fonda, si costruisce, si trasforma e si pone in crisi, attraverso atti di fedeltà e conservazione, di innovazione e trasformazione, di ribellione e tradimento: ma che comunque si consumano, sempre, attraverso lettere, parole, libri. Perciò “non è questione di sassi, tribù, cromosomi. Non si ha da essere archeologi, antropologi o genetisti per tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non si ha da essere ebrei osservanti. Neanche ebrei. D’altro canto, neanche antisemiti. Di fatto, basta essere dei lettori”.
Atei dichiarati, gli autori considerano attraverso questo particolare angolo visuale anche la peculiare relazione del popolo ebraico con la figura dell’Altissimo, sempre tanto presente e incombente – anche nella sua presunta indifferenza, lontananza o assenza – nella storia degli uomini, e lo fanno con grande rispetto, ma senza comunque mai deviare dalla propria impostazione: la storia di Israele resta sempre e comunque una storia di parole, e “Dio è una di queste parole”.
Tra i tanti temi trattati nel libro, particolarmente interessanti mi sono parse le pagine dedicate al rapporto, così importante nella storia del pensiero rabbinico, tra maestro e discepolo, non meno centrale e significativo di quello padre-figlio: “la tradizione ebraica – notano gli autori – permette e incoraggia l’allievo a muoversi contro il maestro, a dissentire da lui, a dimostrare che si sbaglia. Fino a un certo punto. Questo è un messaggio freudiano, piuttosto raro nelle culture tradizionali. È anche una chiave d’accesso al rinnovamento intellettuale. Fino a un certo punto… perché la ribellione ha i suoi limiti. Non si può buttar via tutto il pacchetto – Dio, fede e Torah. In tal caso, si verrebbe ripudiati”. Almeno, così è stato per secoli. A partire dall’haskalah, molti figli del popolo ebraico hanno scelto di oltrepassare quel confine, e anche di “buttare via tutto il pacchetto”. E i semi dell’ebraismo, sparsi nel mondo dei gentili, hanno dato i noti, sorprendenti risultati che conosciamo. Sono ancora da considerare ebrei coloro che hanno superato il confine, spingendo la ribellione al di là del limite consentito? I due autori sembrano non dare alcuna importanza al problema, dal momento che al quesito “Chi è ebreo?” ritengono di poter rispondere: “Chiunque si trovi ad affrontare la domanda ‘Chi è un ebreo?’”. Perché “nella tradizione ebraica ogni lettore è un correttore di bozze, ogni allievo un critico e ogni autore, compreso quello dell’Universo, formula quante più possibili domande”.
Un libro stimolante e affascinante, che permette, insieme, di apprendere, riflettere e sorridere. Anche perché in esso non si parla quasi mai di quel ‘cane nero’ che da duemila anni accompagna la storia d’Israele, e che, purtroppo, alla stessa identità ebraica – intesa, al contrario, come qualcosa che non richiede assolutamente alcuna domanda – ha dato e continua a dare un doloroso contributo, di cui molto volentieri si farebbe a meno.
Francesco Lucrezi, storico
(15 aprile 2015)