Calcio e calci
Le ultime, indecorose vicende nel calcio italiano, dove una parte delle “tifoserie” ancora una volta ha dato il peggio di sé (un fatto che gli è connaturato, essendo la pasta di cui sono costituite le frange più radicali degli ultras), non possono sorprendere. Vuoi perché il giro di interessi, al medesimo tempo economici e politici, che ruota intorno ad esse è cospicuo, vuoi perché il fenomeno – che è europeo, se non intercontinentale – non è mai stato colpito e represso con strumenti adeguati. Se si fa eccezione per l’Inghilterra dei primi anni Ottanta, quando uno dei punti fondamentali del programma politico per il quale Margaret Thatcher fu eletta (riportare ordine, anche ricorrendo a durissime misure in puro stile «law and order», tra gli spalti degli stadi), venne attuato con algida determinazione. Si trattava, d’altro canto, di recuperare al controllo delle istituzioni interi perimetri urbani altrimenti sfuggiti ad ogni forma di legalità che non fosse quella che i gruppi dominanti dettavano alle collettività locali, proprio a partire dalle consorterie di “tifosi”, organizzatesi come piccoli ma determinate controistituzioni territoriali, che trovavano nel rituale agonistico il loro centro di legittimazione simbolica. Con andamenti altalenanti, le militanze ultras, che continuano ad usare lo sport come centro di gravitazione, ambendo tuttavia a svolgere un vero e proprio ruolo politico e sociale sul territorio, non sono tuttavia mai venute meno. Né, in tutta probabilità, ciò avverrà nel futuro. La loro logica incorpora l’agire bellico, come le guerre iugoslave – negli anni Novanta – si sono incaricate ancora una volta di dimostrare. Proprio nel corso di quel lungo, dilacerante conflitto civile, i gruppi delle tifoserie calcistiche contrapposte, a partire da quella serba di Željko Ražnatović, altrimenti noto come Arkan, fornirono infatti i quadri e i miliziani delle formazioni paramilitari che si adoperarono poi nei peggiori crimini. Non fu certo l’unico caso né fu quello l’unico conflitto in cui ciò andò manifestandosi. Una occhiata, ad esempio, meriterebbe darla nel Donbass, laddove Russia e Ucraina si confrontano. Come anche in certe manifestazioni dei foreign fighters, essendo il radicalismo uno stile di vita (e a volte di morte) alla perenne ricerca di “cause” nelle quali identificarsi per meglio nobilitare la propria vocazione conflittuale. Le odierne vicende italiane, quindi, al netto dei diversi contesti politici e sociali, vanno ricondotte ad una tale cornice. La morte nei giorni scorsi di un esponente del radicalismo ultras, con all’attivo un fascicolo giudiziario corposo, conferma peraltro questo dato di fondo. La radice storica, infatti, risale ad almeno cinquant’anni fa, anche se i fenomeni ultras sono compositi, non riconducibili sempre e comunque ad un’unica matrice. Semmai il loro collante è la violenza esibita e rivendicata, al netto delle famiglie ideologiche e politiche di appartenenza, oggi nella quasi totalità dei casi ascrivibili alla destra radicale. In Italia cosi come in Europa. Al riguardo ci è capitato di scrivere in «Neofascismi» (Torino, 2018), ricostruendo una matrice plausibile: «[…] un fenomeno che saltava agli occhi era quello della presenza «skinheads», le «teste rasate». Fin dalla loro origine negli anni Sessanta, in Gran Bretagna, tra i giovani delle classi lavoratrici, si erano contraddistinti come una specifica subcultura, basata su un peculiare modo di vestire, di atteggiarsi, di comportarsi, di consumare, di fare e ascoltare musica (il punk rock e il genere Oi!) e di vivere la quotidianità. Il tutto improntato ad uno stile rude (il rude boy, il «ragazzo rozzo»), essenziale, diretto, aggressivo, tipico di una certa concezione della «working class», usando determinati capi di vestiario come segni di appartenenza. Ciò facendo volevano contrassegnare una identità di gruppo che intendeva opporsi ai processi di integrazione e “imborghesimento” della classe operaia europea, intendendo la loro opposizione essenzialmente come una “rivoluzione dello stile” estetico. Negli anni Settanta, incontrandosi con le tifoserie hooligans e ultras del calcio inglese e poi europeo, una parte di essi iniziò a politicizzarsi, perlopiù a destra. I crescenti legami con il National Front e il British Movement, di estrema destra, e poi la nascita del gruppo Blood & Honour («sangue e onore») consolidarono questa radicalizzazione, fino ad arrivare alla formazione dei Confederate Hammerskins, raggruppamento internazionale estremista. La tendenza allo scontro fisico, soprattutto contro gruppi rivali, ovvero la “lotta di razza” contro i pakistani, gli hippies, gli omosessuali, già preesistente, andò accentuandosi, divenendo una regola di comportamento basata sulla xenofobia e l’omofobia sistematiche. Da questo percorso derivarono quindi i bonehead (la «testa di osso» poiché completamente rasata) e i cosiddetti naziskin (termine di origine giornalistica), anche se gli skinhead, nel loro insieme, rimangono perlopiù un movimento che si identifica con la propria estrazione sociale proletaria e sottoproletaria piuttosto che con uno specifico orientamento politico. Le componenti più intolleranti e nazionaliste si autodefiniscono Skin88 (88 indica l’ottava lettera dell’alfabeto, acronimo quindi di Heil Hitler), in genere riconoscendosi nel circuito musicale del Rock Against Communism. In Italia la contaminazione con la destra radicale si verifica soprattutto a Milano (Azione skinhead e Circolo Ideogramma), Roma (SPQR Skins, Azione Skinhead ma anche il Movimento politico di Maurizio Boccacci), Trieste (Circolo il sentiero) e con il Veneto fronte skinhead (VFS), quest’ultima l’organizzazione più longeva. Il VFS nasce a metà degli anni Ottanta, impegnandosi quindi nella realizzazione di concerti musicali con i gruppi europei di matrice nazifascista e cercando di inserirsi nelle tifoserie calcistiche, a partire dall’Hellas Verona. Organizza inoltre un raduno quinquennale europeo, «ritorno a Camelot». Più volte coinvolto nelle inchieste della magistratura su atti di intimidazione, violenze e pestaggi oltra all’accusa di istigazione all’odio razziale, il VFS ha intrattenuto rapporti con partiti dell’estrema destra. Gli skin di destra italiani appartegono perlopiù al network Base autonoma, che dall’inizio degli anni Novanta è il collettore di piccole organizzazioni presenti in alcune realtà metropolitane del Paese. L’elaborazione culturale è affida al gruppo de L’uomo libero, rivista milanese nata nel 1979 ma salita agli onori della cronaca soltanto due decenni dopo, per via delle sue connessioni con la galassia naziskin. Il periodico, diretto da Mario Consoli, ha ospitato a lungo le firme di Piero Sella, «ideologo antimondialista», di Sergio e Marzio Gozzoli e di Lello Ragni, leader di Comunità militante, componente nazionalrivoluzionaria dell’allora Msi di Caserta. L’elemento trainante degli skinhead radicali, spesso presenti alle manifestazioni dell’ultradestra, è l’avversione nei confronti degli immigrati, oltre a un netto antisemitismo. A tutt’oggi rimangono al loro interno due componenti: la prima è quella più propriamente facinorosa, abituata a “menare le mani” come esercizio fine a sé; la seconda è quella militante, legata all’evolismo e alle tradizioni culturali della destra radicale. Il terreno di sintesi tra gli uni e gli altri sono la xenofobia e la lotta alla «contaminazione tra razze», l’Europa come «terza via» e il rimando ai valori espressi dal tradizionalismo». Si tratta di un’estrema sintesi, di una sorta di descrizione liofilizzata di un ambiente senz’altro minoritario, che di certo non rappresenta il mondo del calcio in quanto tale ma ne è comunque contiguo, trovando spesso silenziose compiacenze. Non sono solo “forze del disordine” ma articolazioni parapolitiche e militarizzabili di un’area molto più ampia e magmatica, che raccoglie coloro che vivono un irrisolto bisogno di ricorre alle “vie di fatto”, sentendosi perennemente prudere le mani. È uno squadrismo del nuovo millennio, in buona sostanza, che già da molti lustri ha individuato negli stadi uno dei suoi terreni elettivi per produrre manovalanza della violenza, sospesa tra gesto criminale puro e autocompiacimento pseudoideologico. Le guerre di lungo corso e “bassa intensità”, d’altro canto, sono fatte anche di questo, quand’anche non presuppongano il ricorso ad eserciti organizzati e immediatamente riconoscibili.
Claudio Vercelli
(30 dicembre 2018)