Razzismo, la lezione dello sport

Cari amici di Pagine Ebraiche,
mi chiamo Maria, frequento il quarto anno al Liceo Scientifico A. Roiti di Ferrara, indirizzo sportivo. Quest’anno alle classi quarte del nostro indirizzo è stato proposto un progetto di alternanza a partire dalla mostra “Sport, sportivi e giochi olimpici nell’Italia in guerra”. Siamo stati protagonisti fin dall’inizio, abbiamo allestito, studiato, spiegato e smontato la mostra, insomma ne abbiamo vissuto ogni aspetto. Ognuno di noi ha dovuto rapportarsi direttamente con uno dei periodi storici più bui della nostra storia: dovevamo fare i conti con quello che è accaduto. Per me è stata sicuramente una presa di coscienza di fronte al passato, ma soprattutto di fronte alla mia quotidianità: quante volte si danno per scontati i diritti che rendono così libera la nostra vita, e quante tante altre volte davanti ad un’ingiustizia si rimane indifferenti. La mostra ha aiutato molto in questo lavoro di “presa di coscienza”: nei pannelli vengono rappresentate le vite di tantissime persone che hanno visto in primis la loro carriera sportiva, e successivamente la loro stessa vita, stroncate da questo odio irrazionale che tanto infuocò gli animi delle persone. E io mi sono sentita chiamata a rispondere a queste vite raccontate, a rispondere a questo urlo silenzioso, ma non bastava trovare una giustificazione o capire tutto di quel periodo storico, sentivo il bisogno di vedere come io nella mia vita vivo. 
Una delle storie che mi ha colpito di più è stata quella di Judith Deutsch, atleta di origine ebraica, diventata campionessa nazionale in Austria: nel ‘36 si rifiuta di partecipare alle Olimpiadi in segno di solidarietà agli atleti ebrei tedeschi esclusi. Le vengono ritirati tutti i premi nazionali e riceve una sanzione. Successivamente, dopo l’annessione dell’Austria, si trovò in difficoltà e riuscì a scappare in Palestina. Mise a rischio la sua intera carriera sportiva per degli sconosciuti; in un periodo in cui l’altro era identificato come un nemico, lei afferma invece che l’altro ha un valore: in quanto uomo, in quanto simile a me, in quanto come me. Era giovane, giovanissima, ma prende una posizione certa e invidiabile davanti alla realtà, pronta a sacrificarsi in nome della libertà e dell’eguaglianza. Davanti a Judith sono stata obbligata a chiedermi come vivo io le mie giornate. Sono pronta a spendermi per gli altri? Sono pronta per battermi davanti alle ingiustizie? 
Penso sia fondamentale che la scuola proponga progetti come questi, perché abbiamo bisogno di toccare con mano la devastazione umana che porta un’ideologia basata sul razzismo, la separazione e la supremazia di un uomo sull’altro. Spesso non ci rendiamo conto che durante le nostre giornate ci imbattiamo in un sacco di ingiustizie, e la nostra posizione di indifferenza congela la nostra coscienza e ci fa passare oltre; conoscere bene il passato può aiutarci a comprendere meglio il presente e a non commettere gli stessi errori. Chissà, potremmo essere le Judith del futuro. Ma in fondo spero che il mondo non debba più avere bisogno di uomini che sacrificano loro stessi. Uno dei ricordi più belli di questa esperienza è sicuramente la visita guidata fatta a una prima media: ascoltavano le storie di questi uomini distrutti dall’odio con gli occhi spalancati, un po’ increduli, per loro era inconcepibile che qualcuno potesse guardare un altro uomo come se fosse un animale. Per loro era tutto così lontano. Arrivati alla parte sulle Olimpiadi del ‘36, una bambina, guardando la foto di Jesse Owens e Luz Long, dice che sicuramente era da lì che erano nati i biscotti Ringo, perché per lei bastava un biscotto per sconfiggere il razzismo. Lo vorrei anch’io!

Maria Boarini

(31 dicembre 2018)