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Nel dialogo che instaura con l’Eterno, Mosè per due volte richiama la propria difficoltà di parola, dapprima come manifestazione di ritenuta inadeguatezza alla missione che il Signore gli stava affidando, poi per sollevare tutti i suoi dubbi sul fatto che il faraone sarebbe stato disposto ad ascoltare il suo esprimersi faticoso. Certo, in seguito Mosè manifesterà pienamente, anche nella parola, il suo essere espressione del massimo livello di profezia, tuttavia è significativo che il Signore abbia scelto per un ruolo tanto grande una persona che, almeno all’inizio della sua missione, appare in difficoltà proprio nell’espressione verbale, quale che fosse la natura di questo ostacolo su cui midrash e commentatori danno diverse interpretazioni.
Come espresso da R. Nissim ben Reuvev (RaN), la prima considerazione che suggerisce questa debolezza di Mosè è che la sua autorevolezza doveva scaturire non dalle capacità oratorie, dalla forza delle parole, bensì dallo stesso adempimento della missione affidatagli dal Signore e dalle qualità intrinseche che il profeta avrebbe manifestato. È ovviamente possibile ampliare il concetto, cogliendo in questa iniziale difficoltà oratoria di Mosè una messa in guardia di fronte al rischio di identificare l’ autorevolezza del leader nella capacità di coinvolgere e trascinare con la demagogia e la retorica, piuttosto che con il contenuto dei suoi messaggi, le qualità personali e l’esempio di vita. C’è anche chi interpreta la fatica di Mosè nella parola come espressione di difficoltà del profeta ad esprimere tutta l’ampiezza e l’intensità dei suoi pensieri; è anche questo un segno non di debolezza, non di lacune bensì di grandezza d’animo e di sensibilità che caratterizza gli uomini veramente grandi nello spirito. In questo senso risuonano le parole del grande poeta Chaym Nahman Bialik “Per che cosa dobbiamo stupirci? Per il senso d sicurezza e di piacere che spesso accompagnano gli uomini nel loro parlare, come fossero davvero in grado di esprimere i propri sentimenti e i propri pensieri, come procedendo tranquillamente su un ponte ben saldo; non si rendono conto quanto quel ponte sia precario, quanto profondo e oscuro l’abisso che sotto di esso si apre, quanto ci sia di miracoloso in ogni passo che si riesce a compiere in quel percorso”. Analogo affanno, sia pure da ben diversa prospettiva, ritroviamo in Rav Avraham Izhak Kook: “Come potrò esprimere la grande verità che riempie il mio cuore. Mio D. O, aiutami nella mia pena, disponi per me una lingua idonea, parola ed espressione per manifestare la Tua verità”.
Nella consapevolezza dei limiti delle nostre parole, ogni giorno iniziamo le preghiere chiedendo al Signore “Apri le mie labbra affinché la mia bocca pronunci la Tua lode”.
Giuseppe Momigliano, rabbino
(2 gennaio 2019)