Periscopio – Tre scrittori
Credo che il 2018 sarà ricordato, nei libri di storia, come l’anno in cui hanno terminato la loro esistenza tre tra i massimi scrittori di tutti i tempi, la cui testimonianza è destinata a restare per sempre un esempio luminoso di capacità di analisi e interpretazione dei labirintici e imperscrutabili percorsi dell’animo umano, dei confini più estremi, gli angoli più nascosti della coscienza che possono essere raggiunti dagli strumenti della narrazione e della poesia: Aharon Appelfeld, Philip Roth, Amos Oz.
Credo che sia difficile cercare di capire quali siano state le terribili lezioni del XX secolo, e quali strade si siano aperte, o si possano ancora aprire, nel nuovo millennio, prescindendo dalla voce di questi tre giganti. Così come è impossibile interrogarsi sulla collocazione, la funzione e il destino del popolo ebraico nel mondo delle genti senza riflettere sulle loro immagini, invenzioni, parabole, spesso sorprendenti, talvolta paradossali, mai banali o scontate.
Accomunati dalla grandezza artistica, sono stati tre autori molto diversi l’uno dagli altri, come vita vissuta, tematiche prescelte, messaggi esistenziali.
Di Appelfeld ritengo che sarà ricordata soprattutto la inesauribile capacità di creazione linguistica, davvero incredibile se si pensa che ha scritto in una lingua, l’ebraico, che è stato costretto a imparare quando era un ragazzo già cresciuto, dopo che i carnefici, sterminando la sua famiglia e costringendolo a lasciare la sua terra (la Bucovina, ora in Romania), dove era nato e cresciuto, gli avevano bruciato i ponte alle spalle, privandolo non solo della madre, dei parenti, della casa, ma anche della sua madrelingua. La terra d’Israele è diventata così per lui non solo una nuova patria, ma un riparo dall’inferno, così come l’ebraico, più che una nuova lingua, è diventato – come ho già avuto modo dire, in occasione della sua scomparsa – una nuova madre. E questa madre gli ha permesso non solo di vivere, ma anche di restituire un po’ di vita alle vittime dello sterminio, che, nelle sue tristi, incantevoli pagine, continuano a parlare, da un’Atlantide sommersa, come mute figure di fiabe di dolore.
Quanto a Roth, penso che la sua imponente produzione – nella quale, proprio per la sua ampiezza, si registrano, accanto a vette insuperabili, anche dei momenti meno convincenti – esprima in modo perturbante il doloroso conflitto tra un cupo pessimismo di fondo – riguardo alla stessa possibilità di una definizione compiuta e serena dell’identità ebraica, nonché di quella complessa realtà americana di cui ha impietosamente denunciato (sotto l’apparente patina di felicità, successo, ottimismo) l’ipocrisia, la falsità, la rabbia feroce e autodistruttiva – e l’ottimismo intrinseco in una capacità di comunicazione senza pari, che gli ha permesso di raggiungere, in tutto il mondo, in tutte le lingue, decine di milioni di lettori, tutti indotti a seguirlo in un percorso irto di domande, di dubbi, di lacerazioni, di contraddizioni e scarnificazioni, costretti da lui a riconoscere che la vita può essere amara, beffarda, crudele, ma impone, sempre e comunque, di essere narrata. Proprio perché dure e angoscianti, le sue pagine sono state, e continueranno a essere, delle irresistibile calamite dell’anima.
“Da bambino – scrive Oz, nella sia straordinaria autobiografia “Una storia di amore e di tenebra” – sognavo di diventare un libro. Non uno scrittore, ma proprio un libro”. E possiamo dire che questo suo desiderio è andato esaudito, in quanto, leggendo le sue pagine, leggiamo proprio la sua persona, la sua anima di poeta coraggioso e addolorato, di instancabile perlustratore delle pieghe più nascoste dell’animo umano. Profondamente convinto della funzione morale della scrittura, ha vissuto sempre il suo impegno come un imperativo etico, e il libro della sua persona è anche un libro di morale (non sempre persuasivo, come mai può esserlo, sempre e per tutti, un libro di morale), il cui principale comandamento è quello di non arrendersi, non abdicare, non cedere alle tenebre.
Diversi su tanti piani, i tre scrittori sono stati molto distanti anche sul piano dell’impegno politico. Roth è stato un paladino dei ‘liberal’ e progressisti statunitensi, e restano memorabili le sue feroci critiche all’establishment del potere americano e soprattutto ad alcuni esponenti repubblicani (come Nixon) fustigati con violenza, quasi come incarnazione del male e dell’ottusità. Di Oz, tutti conoscono le severissime critiche al governo del suo Paese (che mi sono permesso, in più di un’occasione, di giudicare alquanto eccesive e unilaterali). Appelfeld, invece, non si iscrisse mai al club degli intellettuali “progressisti”, e ricordo con emozione e gratitudine le parole con cui mi spiegò personalmente perché la sinistra lo aveva deluso. E sono sicuro che, proprio per il suo non potere essere usato come una bandiera ‘pacifista’, non ha raggiunto – pur essendo stato tradotto in molti Paesi del mondo – il livello di celebrità dei suoi due colleghi.
Ma a essere mancati, nel 2018, non sono tre uomini politici, ma tre grandi, grandissimi scrittori. L’augurio è che, nel 2019, possa nascere qualche futuro narratore in grado di raccogliere il loro testimone.
Francesco Lucrezi, storico
(2 gennaio 2019)