Appunti di fine anno civile
Inviare pensieri positivi alla tua insegnante di latino e greco del ginnasio, all’improvviso gravemente malata. Non sembra tanto tempo fa che diceva burbera, tra un aoristo ed un duale, ricordate che non sono la vostra mamma. E invece era almeno un paio di vite fa.
Decidere di non andare in piscina per la prima volta con tuo figlio neonato per compiere invece una mitzvà che non dovrebbe esserci, in un momento triste.
Tenere sulle ginocchia una bambina che rifiuta di andare a letto bruciante di febbre.
Pensare rallenta, ascoltando l’aftarà di un bambino, troppo veloce, potrebbe cantarla meglio, e tu potresti non essere sempre perfezionista.
Cucinare spaghetti per un’amica in lutto, troppo presto. L’accudimento come dovere e come forma d’amore troppo parziale, imperfetta, insufficiente.
Fare la spesa al supermercato lontano una città nel giorno in cui tutti corrono più che mai aspettando la sera, perché hai avuto un tesoretto in buoni pasto che scadono oggi e con quel che costa la carne kasher, correrai un po’ di più anche tu.
Sentire sui peli delle braccia ogni palata di terra, quale peso, e chiederti se forse riuscirai ad evitare di tagliare l’abito, un giorno.
Evitare di rispondere con sarcasmo, tre minuti prima dell’ultima mezzanotte dell’anno, ad auguri abbastanza stupidi e volgari: magari il buongusto arriverà da sé.
Mettere mentalmente un sasso, su parte della tua memoria e su una sepoltura fresca. La prima pagina che hai letto interamente in ebraico, aprendo il libro in una libreria gerosolimitana. E sentirsi di essere cresciuti, di essere un po’ così, “eccome se sapevano parlare, erano capaci di discutere fervidamente per tre, quattro ore filate intorno a Nietzsche, Stalin, Freud, Jabotinsky, lasciandosi prendere sino alle lacrime, sino all’elegia, intorno al colonialismo, all’antisemitismo, alla giustizia, alla ‘questione agraria’, alla ‘questione femminile’, ‘arte e vita’. Se non che, quando si trovavano a dover esprimere qualcosa di personale, ne usciva sempre fuori una specie di contorsione arida, fors’anche impaurita – frutto di generazioni e generazioni di vincoli e freni. […] Senza contare che a quel tempo c’era una grave carenza di parole”.
“Ricorda, la vertigine del tempo dentro il tempo dentro il tempo e la volta del cielo che misura mischia intacca il bottino di colori di luce appena dopo che il sole è tramontato, amaranto e celeste e cedro arancione oro luce pura porpora e scarlatto e vermiglio e celeste e oro e rubino…”.
Le parole di cui c’era e c’è penuria, le parole che ci ha regalato, l’espressione del dolore e dell’amore, grazie.
Sara Valentina Di Palma
(3 gennaio 2019)