Le tribù del calcio
È necessario tornare su quanto accaduto a Milano in occasione della partita Inter-Napoli perché molto forte è la sensazione che anche questa volta tutto tenda a rientrare nell’alveo del “già visto”, di una ripetitività certamente inaccettabile ma, appunto perché ripetitiva, in qualche modo “normale”. Verrebbe quasi da dire rassicurante, se non si riferisse ad un atteggiamento tra i più ignobili, il razzismo. Rassicurante, perché tutto ciò che è già noto svolge in qualche modo una funzione di rassicurazione, permette di inserire quanto avvenuto dentro e fuori dello stadio di San Siro in una categoria che tutti i commentatori possono deprecare con toni più o meno alti, più o meno convincenti.
Ma siamo sicuri che si tratta “soltanto” di razzismo? Vorrei riportare quanto scritto sul “Corriere della Sera” del 28/12/2018 da Antonio Polito: «…il razzismo non spiega tutto ciò che è successo a Milano dentro e fuori lo stadio. C’è una logica precedente, tribale e belluina, nei comportamenti degli ultrà. Essi si ritengono tribù in guerra per il territorio con tutte le altre, e soprattutto con la tribù dei poliziotti, che odiano sopra ogni altra cosa. Quindi la regressione è a prima del razzismo, che è un frutto malato dell’Ottocento. Il modello è l’orda barbarica, che marca il terreno come fanno gli animali, con l’esibizione rituale quando va bene e con il sangue quando va male. L’insulto razziale, o “territoriale”, come dice il codice sportivo, è usato per eccitare la violenza. Nero o napoletano fa lo stesso: purché sia nemico».
Quella di Polito è un’analisi che deve far riflettere. Giusta è la sua osservazione sul fatto che il primo bersaglio degli ultrà sono i poliziotti, ridotti al rango di una delle tribù da combattere, non accettati per quello che sono, i rappresentanti dell’autorità dello Stato. Perché in realtà è lo Stato il vero bersaglio degli ultrà, perché è la nascita dello Stato che permette l’uscita dalla faida tribale, che impone una legge che non si fondi su qualcosa che non sia “sangue e onore”, come recita il nome di uno dei gruppi ultrà che si sono scontrati a Milano.
La logica di questi gruppi è fondamentalmente quella di sottrarre spazio, di sottrarre territorio non solo alle tribù rivali, ma in primo luogo allo Stato. Se questo è vero, allora bisogna chiedersi se questa tendenza si esprime soltanto prendendo a pretesto il tifo sportivo oppure se si riscontra anche in altri ambiti.
Naturalmente quello della criminalità organizzata è il fenomeno più evidente di sottrazione di autorità e di controllo territoriale allo Stato. Tuttavia nel comportamento della criminalità organizzata c’è una logica, anche se perversa: la ricerca del profitto per mezzo di attività illecite. Quindi il controllo del territorio non è un fine, ma solo un mezzo, tanto che, fin quando è possibile, la criminalità organizzata cerca di trovare accordi con le autorità dello Stato (o della Regione, o del Comune, o dei partiti).
In realtà esiste un altro ambito dove la tendenza a sottrarre territorio all’autorità dello Stato si manifesta con evidenza: è quello dei luoghi di aggregazione giovanile, in particolare le discoteche e i cosiddetti concerti. La somiglianza di questi luoghi con quelli dell’aggregazione del tifo sportivo non sta nella creazione di gruppi tribali in guerra tra loro, quanto nell’identica tendenza alla sospensione dell’autorità dello Stato. Discoteche e concerti sono luoghi dove la legalità è sospesa, o meglio, la sua osservanza è lasciata all’arbitrio dei singoli. Può essere osservata oppure no, a seconda delle circostanze. Di solito in questi ambienti non si verificano episodi così clamorosi da rendere evidente questa sospensione dell’autorità dello Stato, che ormai viene considerata fenomeno anch’esso “normale” e quindi ignorato, fino a quando qualche caso particolarmente grave, come è accaduto di recente con la discoteca di Corinaldo, non viene a ricordarcelo. Ma il caso di Corinaldo è soltanto la punta di un iceberg: nelle centinaia, nelle migliaia di discoteche diffuse in tutto il Paese la regola è l’extraterritorialità.
Non esiste una ricetta semplice che permetta di modificare in tempi brevi questo stato di cose. Ma una cosa sicuramente è possibile e costituisce il primo passo necessario. Se il ristabilimento dell’autorità dello Stato è considerata, come è intitolato l’articolo di Antonio Polito, “una battaglia culturale”, e non soltanto un problema di ordine pubblico, chi intende combattere questa battaglia deve farsi avanti con pienezza di impegno. E questo impegno è tanto più indispensabile da parte di chi ha direttamente la responsabilità di far affermare la sovranità dello Stato in tutto il territorio nazionale. Nel territorio nazionale, ben prima che nei rapporti con gli altri Stati.
Valentino Baldacci
(3 gennaio 2019)