…Oz
“Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche”. E invece un libro no; di un libro – prosegue Amos Oz nel suo capolavoro Una storia di amore e di tenebra – rimarrà sempre almeno una copia “su un ripiano dimenticato di qualche sperduta biblioteca”.
I libri sono tra i protagonisti del più autobiografico romanzo dello scrittore israeliano. L’amore per la carta, l’inchiostro e i caratteri viene a Oz dai genitori. Il padre, un rapporto intenso, fisico con i libri, “era in grado di leggere sedici o diciassette lingue”; la madre, circa la metà. “Fra loro, conversavano in russo e in polacco […] Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e inglese, certamente era l’yiddish ad abitare i loro sogni, la notte. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico”. Allora il piccolo Amos non immaginava certo che un giorno un suo romanzo sarebbe stato tradotto in ventinove lingue differenti.
Tutto cominciò nel 1945 a Gerusalemme, negli spazi angusti di un appartamento claustrofobico e buio: “Avrò avuto sei anni, quando arrivò nella mia vita un grande giorno: papà liberò per me un piccolo spazio in uno dei suoi scaffali di libri, e mi permise di disporre lì i miei […] Fu una cerimonia di iniziazione, un rito”.
Una storia di amore e di tenebra è un romanzo autobiografico. Secondo Elena Loewenthal, traduttrice di Oz in italiano, è anche il compimento di un “cammino narrativo straordinario in cui l’autore si fa personaggio e i personaggi sono dentro l’autore”. Una confessione dello scrittore che ricorda la propria infanzia tra i luoghi e le persone della Gerusalemme degli anni quaranta e cinquanta, che racconta l’esodo dei parenti dall’Europa dei pogrom e del nazifascismo e il timore di una nuova Shoah nella stessa terra di Israele per mano di nuovi nemici, che si sofferma sul suo ingresso in kibbutz all’età di quindici anni, atto di rinascita dopo un dolore indicibile. Una ricerca per affrontare il trauma del suicidio della madre, per ottenere una risposta che non c’è e non può esserci. Una indagine nella propria memoria in cui i punti di vista sono variabili, in disaccordo.
Quanto c’è di autobiografico in questo romanzo? Tutto, afferma l’autore. Ma Amos Oz non scrive soltanto la biografia della sua infanzia e di tre generazioni della sua famiglia. Compone allo stesso tempo la biografia di un paese, “forse il monologo dell’anima d’Israele”, ancora con le parole di Elena Loewenthal, “quel grandioso affresco che rende al popolo ebraico i Buddenbrook mancanti”. Ed è lo stesso Oz a indicare la materia su cui è plasmato il libro: “vi è il sippur, che è un racconto di vita, e vi è l’historia, che è il passato con l’iniziale maiuscola. Il mio romanzo è l’inestricabile intreccio di queste due cose”. Grazie Amos Oz per il tuo romanzo di amore e di tenebra, il romanzo di Israele.
Giorgio Berruto
(3 gennaio 2019)