A Torino otto anni fa
È successo veramente? Non me lo sono sognato? Davvero è capitato che nel bet ha-keneset di Torino si siano trovati ad accogliere lo Shabbat insieme Amos Oz e il rabbino capo ashkenazita di Israele? Certo, era Shabbat e dunque non esistono fotografie o filmati. Dobbiamo basarci esclusivamente sulla memoria, e la memoria stessa è incredula.
Per fortuna mi viene in aiuto questo notiziario che mi conferma il fatto e la data (12 novembre 2010). In effetti ciò che oggi appare incredibile appariva incredibile anche otto anni fa: “Incontri straordinari, che forse non sarebbero immaginabili in nessun altro luogo al mondo, attendono fra poche ore, all’inizio di questo Shabbat, la Comunità ebraica di Torino” scriveva infatti Guido Vitale, parlando di “due esponenti di primo piano del mondo ebraico internazionale, quanto mai diversi, ma sempre profondamente autentici e rappresentativi dei valori e della vita ebraica.” E diversi lo erano senza dubbio, non solo per il livello di osservanza ma certo anche per formazione, mentalità, idee politiche e chissà quante altre cose. Per una singolare coincidenza si erano trovati nella stessa città nello stesso giorno. Ricordo che il rabbino capo askenazita di Israele (in questo contesto mi pare rilevante menzionare il ruolo più che la persona) aveva lodato e ringraziato Oz perché con i suoi libri letti in tutto il mondo portava onore allo stato di Israele: un riconoscimento che mi era parso tutt’altro che scontato date le forti contrapposizioni tra “religiosi” e “laici” che caratterizzano lo stato ebraico. Non ricordo esattamente che cosa abbia detto Oz, che forse era un po’ sorpreso anche lui dalla circostanza insolita.
Dato che era Shabbat nessuno ha potuto fotografare, filmare, prendere appunti. Niente selfie, niente frasi ad effetto trascritte e rilanciate per mesi sui giornali e sui social media. Lo Shabbat permette di ricordare le emozioni più che i dettagli, ma, proprio per questo, il ricordo delle emozioni è molto più nitido perché non intaccato da riflessioni e commenti successivi. E oggi pensando ad Amos Oz non riesco a dimenticare l’emozione di averlo avuto tra di noi ad accogliere con noi lo Shabbat nella nostra sinagoga.
Se in Israele le persone vivono come in tribù separate tra loro, che sanno pochissimo l’una dell’altra (come ha messo in evidenza il Presidente Rivlin in un suo discorso del 2015), nella diaspora la Comunità può ancora essere il luogo che accoglie tutti e dove tutti si incontrano.
È accaduto, può accadere di nuovo. Purtroppo non potrà più accadere con Amos Oz, e questo ci rende tristi; ma potrà accadere con altri. Tra gli ebrei non esistono (o, per lo meno, non dovrebbero esistere) incontri impossibili e una sinagoga in un punto qualunque sulla faccia della terra (e non solo a Torino, come scriveva Guido Vitale con un omaggio gradito ma, temo, immeritato) potrà sempre essere (o, per lo meno, dovrebbe sempre essere) la casa di tutti.
Anna Segre, insegnante
(9 gennaio 2019)