Il mio mago di Oz
La morte di Amos Oz ha investito il nostro paese quanto Israele (forse addirittura un po’ di più?). Sta di fatto che un piccolo diluvio di coccodrilli, a volte dei panegirici, spesso degli encomi, hanno comunque testimoniato dell’affetto che i nostri connazionali, quelli che leggono (invero mai troppi), nutrono nei confronti del grande letterato come, non di meno, della sua rilevante figura pubblica. Un affetto ricambiato dallo scrittore che era uso da parecchio tempo frequentare la Penisola. Riscontrato questa reciprocità di amorevoli sensi (sia detto senza alcuna irriverenza), forse varrebbe la pena mettere a fuoco la figura del biografato, senza la pretesa di dire parole definitive ma cercando di rimanere con i piedi per terra. Poiché ad Oz di certo la “terra”, a partire da quella d’Israele, gli è sempre piaciuta. Così come, nell’officina della sua scrittura, realisticamente immaginifica, ha sempre cercato di restituirci la vivida complessità del suo Paese. In Italia, d’altro canto, se sei riconosciuto come israeliano, non puoi che essere da subito giudicato peccatore oppure santo. Vie di mezzo non ce ne sono. Allora, per brevi punti, mi permetto di raccontare il “mio Oz”, che invece mi è sempre parso essere un peccatore che cerca di percorrere le vie della “santità” (vale anche il reciproco inverso). Anche per cautelare i lettori dal rischio di cadere nelle retoriche encomiastiche che, paradossalmente, annullano la concretezza della persona, e del suo lavoro intellettuale, trasformando l’una e l’altro in icone al servizio di un’immagine puramente ideologica. Lo faccio per punti (essendo noto per la mia puntigliosa brevità):
1) non era un «pacifista», termine che per altro nel linguaggio politico israeliano assume significati diversi da quelli nostrani. Semmai era pacifico, ossia un uomo che cercava, del pari a tanti suoi contemporanei, di trovare soluzioni negoziate ai conflitti aperti. Anche per questo i critici di Israele hanno spesso detto che egli apparteneva a quella sinistra che “vuole praticare politiche di destra”. In realtà ha attraversato ed ha abitato» il «campo della pace, declinato poi con il tramonto della stagione negoziale di oramai due decenni fa;
2) non era la «coscienza critica» d’Israele, ossia la sintesi delle opposizioni alle politiche dello Stato ebraico (sì, proprio così!). Semmai era una delle coscienze di Israele (ce ne sono parecchie), una società e una comunità politica basate sul pluralismo delle opinioni, avendo dalla sua lo strumento formidabile di una scrittura tanto talentosa quanto potente;
3) era un autore “politico”, nel senso che tutta la sua letteratura è intrisa di impegno, di identificazione, di feconda partigianeria. Non ha mai pensato che lo scrivere non fosse “prendere parte”, rivendicando semmai la necessità di ponderare i pesi e prendere le giuste misure prima di avventurarsi in un qualche conflitto;
4) ha quindi sempre pensato che il conflitto – ossia il confronto tra interessi e posizioni distinte – fosse il sale della democrazia. La quale non è mai coincidenza tra le parti ma loro movimentazione, poiché è democratica la progressiva sintesi tra opposti e non la loro uniformazione a prescindere. Anche e soprattutto per questo ha ripetutamente tessuto l’elogio del «compromesso» come forma alta della politica. Il compromesso, la mediazione, non sono intesi da Oz come precario equilibrismo ma come premessa dell’esistenza, semmai indicando di essa la sua capacità di adattamento alle condizioni mutevoli dell’ambiente sociale, politico, culturale e così via;
5) ha sempre temuto la cristallizzazione di idee, passioni ed opinioni dentro quei contenitori che assumono la forma, falsamente rassicurante, di convinzioni inscalfibili. Il suo elogio del «traditore» e il suo rifiuto del fanatismo non rispondono a moventi bizzarri, eclettici o estetizzanti. Sono due precise prese di posizione a favore della politica che, senza il pluralismo, è cosa di per sé morta;
6) ha vissuto, è cresciuto, si è formato e per più aspetti ha rappresentato la cultura politica dall’ampia famiglia laburista e socialdemocratica israeliana. Anzi, per molti aspetti israelo-europea. Di essa, dei suoi fasti così come del suo declino, ha raccontato storie e traiettorie. In questo, sapeva di essere anche (ma non solo) “anacronistico”, in quanto figlio del Novecento, secolo di cui ha contribuito a resocontare, per così dire, vizi e virtù;
7) ha sempre condiviso e portato dentro di sé il calco per eccellenza di tutti i conflitti (un termine, quest’ultimo, che evidentemente ritorna), quello con i propri genitori. Non si è buoni scrittori, va da sé, se non si cerca di fare i conti, senza mai riuscire del tutto a scioglierli, con coloro che ci hanno generato. Delle vicende difficili, al limite dell’insostenibile, con una madre troppo presto fuggita dalla vita e con un padre invece forse troppo presente nell’esistenza del figlio, ha reso testimonianza ripetuta, dando corpo a fantasie e angosce, desideri e paure, sogni e bisogni. La sua esperienza del kibbutz, dove presto scoprì di essere adatto a raccontare più che ad agire, fa da cornice a questa premessa domestica e familiare. Non è stato l’unico, peraltro;
la grande madre di Israele è la Diaspora, con la quale spesso il primo nutre un rapporto difficile, cercando di emanciparsi, mentre la seconda guarda al primo con orgoglio, a volte cieco. Si sa che i figli sono vissuti spesso così dai genitori. Ma non finisce qui. Oz non si può infatti pienamente capire se non lo si legge “anche” come autore che interloquisce con ciò che sta al di fuori dei confini del suo Paese;
9) ciò pensando e facendo, Amos Oz è stato animato da un profondo patriottismo costituzionale, ossia il rispetto di quelle regole senza le quali la democrazia si trasforma in oclocrazia. La sua immagine pubblica di autore “etico”, ispirato a valori e principi universali, ruota intorno a questo elemento. Non è quindi un caso se abbia convinto quanti sono diventati, di volta in volta, i “suoi” lettori, rivolgendosi a loro a partire dalla sua esperienza particolare usando tuttavia un linguaggio condiviso. Segnatamente, la democrazia di cui si parla è quella israeliana;
10) come molti israeliani – non la stessa cosa può essere detta degli italiani – ha in chiaro cosa storicamente sia un confine, quanto esso possa divenire claustrofobico, ghettizzante, angoscioso. Sa anche però che se non si ha un qualche perimetro, si rischia di rimanere per sempre nel deserto. A patto di riconoscere che i perimetri possono mutare nel corso del tempo, al pari delle identità. Così come, in quanto sabra figlio della Diaspora, ha sempre pensato che una minoranza potesse dare vita ad una democrazia ma che la democrazia non sopravvive a se stessa se è solo un esercizio per una minoranza. Si tratta di temi universali, tanto più nell’età della globalizzazione.
Claudio Vercelli
(7 gennaio 2019)